Piccolo Corso Biblico


LA DONNA NELLA BIBBIA





Colloqui con una teologa Cattolica

emsf.rai.it/grillo/trasmissioni.asp?d=849 11 giugno 2001- Puntata realizzata con gli studenti del Liceo Scientifico Giordano Bruno di Torino.


Prof.ssa Cettina Militello, teologa, direttrice della cattedra "Donna e cristianesimo" alla Pontificia facoltà Teologica Marianum.

Nella Bibbia la donna è subordinata all'uomo?
Suonano davvero inquietanti molte delle parole pronunciate da San Paolo nel tempo della sua predicazione. Una per tutte, perentoria come una sentenza, nella Prima Lettera ai Corinzi: "Capo della donna è l'uomo".

Ma è lo stesso San Paolo, in un altro passo, a riconoscere "l'uguaglianza di natura e dignità dei due sessi": "Come la donna deriva dall'uomo, così l'uomo ha vita dalla donna".

Nel racconto evangelico la presenza della donna è significativa, spesso rivelatrice. Non solo le donne sono al seguito della predicazione di Gesù, come si legge, ad esempio, nel Vangelo di Luca, ma diventano assolutamente fondamentali nei giorni della sua Passione e Resurrezione.

Ai piedi della Croce, estrema compagnia del Cristo in agonia, c'è un piccolo gruppo di donne. Queste testimoni della Passione di Gesù custodiscono le sue ultime parole, raccolgono il suo grido: "Dio mio! Dio mio! Perché mi hai abbandonato?". E, come racconta il Vangelo di Giovanni, è a Maria di Magdala, prima di chiunque altro, che appare il Cristo Risorto: "Donna perché piangi?".

Dunque, l'interrogazione sul posto delle donne nelle Sacre Scritture non finisce, al contrario si arricchisce di nuovi problemi, di nuove domande, e di nuovi contributi. Quelli, ad esempio, di un'esegesi e di una teologia femminile che va ripensando la collocazione della donna nella Bibbia e soprattutto il suo posto nella comunità cristiana.




Quanto, secondo Lei, questa figura della donna così sottomessa, che emerge dalla Bibbia, ha influenzato la cultura moderna e soprattutto ha legittimato l'atteggiamento di alcuni uomini nei confronti delle donne ?

Bisogna rovesciare la domanda, perché il fatto religioso non condiziona la cultura. È piuttosto la cultura all'interno della quale si vive il fatto religioso. E allora, se mai, dal mio punto di vista, l'esperienza religiosa ha pagato un eccessivo tributo ad una cultura androcentrica e patriarcale.

Detto altrimenti, noi potremmo pensare che la subordinazione e la soggezione della donna dipende da quanto la Scrittura afferma. La Scrittura traduce quello che è la considerazione culturale che della donna si ha in quel determinato tempo. Difatti a una lettura più attenta si constaterà come sovente la Scrittura contraddice la cultura e apre delle interpretazioni, delle prospettive di lettura, che poi sono quelle sulla cui base, speriamo, prima o poi, secondo gli antropologi da qui a un trecento anni, se la tendenza non subisce mutazioni, finalmente dovremmo arrivare ad una parità tra uomo e donna.




Possiamo individuare delle tipologie femminili ricorrenti nell'Antico Testamento?

Certamente. Nell'Antico Testamento noi abbiamo fondamentalmente una tipologia che si iscrive nelle cosiddette strutture di "mediazione salvifica", cioè all'interno dell'esperienza del popolo d'Israele abbiamo alcune figure che sono chiamate ad esercitare la profezia, la regalità, il sacerdozio. Fatta eccezione per il sacerdozio, che non prevede neanche il vocabolo femminile, abbiamo profetesse e abbiamo regine.

La figura più interessante è quella delle profetesse, il che sta a dire che la gratuità dello spirito, che sta a monte della profezia, viene elargita, come dice la Bibbia - e vuole dire su tutte le persone, senza distinzione - viene elargita "a suon di carne".

La Scrittura usa il termine "carne" (basar),  per dire la totalità dell'essere umano. Però un capitolo molto interessante, per quanto riguarda l'Antico Testamento, è dato dalle matriarche, queste figure singolari delle compagne dei patriarchi, la cui epopea la Bibbia ci narra, e che acquisiscono un ruolo di vere e proprie protagoniste, soprattutto nel passaggio che va da Abramo a Giacobbe. Queste donne contano.

C'è la stupenda figura di Sara, la moglie di Isacco, la quale addirittura ci testimonia quell'ironia che la letteratura contemporanea riconosce come caratteristica delle donne del porsi nei confronti del reale. E Sara ha il coraggio di ridere.

Ormai è in meno pausa, le dicono che aspetta un figlio, giustamente dice: '"Ma questo è matto!" e ride tranquillamente. Quindi non figure ingessate, ma figure capaci, appunto, di ridere di se stesse: "Il mio Signore verrà da me, adesso che sono così vecchia, così avanti negli anni, che il mio grembo ormai è sterile?". Per dire, questa capacità di autoleggersi, con tutta franchezza, appunto con ironia.

Così come è interessantissima la figura di Rebecca, che, prediligendo il figlio Giacobbe, fa passare su di lui la linea della primogenitura. E, diciamo, meno forti delle matriarche, ma riconducibili a questo ruolo di partnership, troviamo anche altre donne all'interno della Scrittura. La stessa cosa potremmo dire proiettandoci anche nel Nuovo Testamento, anche se le tipologie sono meno chiare e meno evidenti. 



Quali sono le novità introdotte dal Nuovo Testamento? C'è una rottura con la visione passata?

Allora, la rottura c'è, però bisogna mettersi nell'ottica delle diverse fasi che ci testimonia lo stesso Antico Testamento. Io ho una mia teoria: cioè i momenti di fondazione o di rifondazione del fatto religioso sono sempre nel segno di una partnership, mentre la codificazione "legalistica", comporta la rottura di questa partnership, che poi è quello che vediamo anche nei momenti forti dell'umanità, non so rivoluzioni, guerre.

Nel momento forte o rifondativo dell'ethos di un popolo, uomini e donne stanno a fianco, poi, appena si finisce, si esce dall'emergenza, gli uomini si riprendono il posto che, secondo loro, è loro dovuto. Quindi bisognerebbe, nell'Antico Testamento, verificare come va cambiando in realtà questo modello. Non è un modello univoco.

Certamente nella fase che prepara il Nuovo Testamento, negli ultimi libri dell'Antico Testamento, malgrado emergano dei modi femminili di dire Dio, per esempio la sapienza, per esempio lo spirito, tutte e due sono termini femminili nel lessico di Israele, diciamo che le donne ormai sono ingessate in tutta una rete di precetti che veramente le chiudono e impediscono loro una soggettualità dal punto di vista religioso.

Pensate, per esempio, che nella prassi della Sinagoga le donne stanno separate dagli uomini e non è qualcosa che abbiamo inventato adesso, ma è qualcosa appunto di originario nel segno di questa separzione. Quello che Gesù innova è il fatto che - ma qualcosa del genere avviene nel giudaismo extratestamentario, per esempio, a suo modo, anche nelle comunità esseniche - accetta le donne alla sua sequela.

Noi sappiamo, è stato ricordato nella presentazione, il testo di Luca: 8; 1-3, che c'erano delle donne che lo seguivano, ma queste donne che lo seguivano, non soltanto prestavano, diciamo, il supporto che le donne, soprattutto ricche, prestavano alle strutture religiose ebraiche - una sorta di protettorato, erano degli sponsor, mettevano a disposizione mezzi, eccetera -, ma queste donne partecipano proprio del ministero, soprattutto del ministero galilaico, cioè dell'incedere di Gesù, predicando il regno di Dio, per le strade della Galilea.

E queste donne salgono con lui a Gerusalemme e poi, soprattutto nei fatti della Passione e della Resurrezione, noi vediamo emergere la parità di queste donne.

Se vogliamo poi riandare ad uno schema e dire, così, in un modo molto sintetico, che cosa Gesù innova, sono tre i tabù che Gesù praticamente demolisce:

1- il tabù dell'impurità sessuale.

Credo che sappiate che una donna mestruata era considerata impura. La legge regolava rigorosamente i rapporti. Sappiamo tutti, uomini e donne, quanto sia utopico il modello di una donna perfettamente regolare. Quindi pensate di quanti problemi, non solo a livello di sfera religiosa, ma anche a livello di sfera familiare e civile, comportasse una donna che era in condizione di impurità. Non poteva far da mangiare, non poteva avere rapporti anche verbali. Quindi dal punto di vista del rapportarsi era il caos.

E l'episodio dell'Emoroissa, detta così per pruderie, in realtà è una donna che ha perdite di sangue, e il fatto che la potenza di Gesù la guarisca sta a significare che questo tabù è spezzato.

2- la minorità della donna.

L'altro tabù è quello della minorità della donna. Tutto il mondo antico ha considerato la donna nel segno della imbecillitas, per usare una parola latina, o astenia, come la chiamano i Greci. La donna è fragile, è debole, eccetera, eccetera. Lo è per natura. Bene, le donne che stanno con Gesù, dimostrano che non sono fragili né dal punto di vista intellettuale, né dal punto di vista fisico, visto che compartecipano questa vita, che è quella di un gruppo carismatico, di un gruppo che procede senza particolari comfort, o senza particolari "riguardi" per le donne.


3-la soggettività giuridica delle donne

E poi infine vede riconosciuta la soggettività giuridica delle donne. Le donne nel mondo ebraico non potevano rendere testimonianza. E paradossalmente ad esse si mostra il Risorto dicendo:"Andate a dire a ai fratelli, ai discepoli, l'evento della Resurrezione". Per cui diciamo che la triplice sfera della minorità femminile, nell'atteggiamento di Gesù di Nazareth, è completamente sconfitta.

Un'altra cosa molto simpatica ci viene dal linguaggio che usa Gesù. Per esempio, proprio ieri, mentre mi occupavo di un'altra cosa, riflettevo sulla Parabola della chioccia. Gesù dice a un certo punto di avere voluto radunare Israele come la chioccia fa con i suoi pulcini: una immagine poverella, addirittura indecorosa per un profeta, per un rabbi. Cioè, voglio dire che il linguaggio di cui si serve Gesù è un linguaggio che attraverso le parabole assegna una soggettualità alle donne e addirittura arriva a servirsi di metafore femminili, pure risibili e discutibili, visto che la chioccia non è esattamente un paradigma con il quale si stabilisce normalmente un confronto, un paragone.


Come possiamo interpretare il fatto che il primo miracolo di Gesù alle Nozze di Cana, secondo il Vangelo di Giovanni, sia stato sollecitato proprio da una donna?

Il racconto delle Nozze di Cana è un racconto enormemente complesso, dove la teologia biblica, che mette al centro dell'episodio la figura di Maria, costruendo, così, il tema del ruolo della Madre di Gesù. Infatti, l'episodio comincia con il verso iniziale: "E c'era la madre di Gesù". Però, in realtà, il brano di Cana è uno dei più interessanti perché mostra il superato contrasto uomo-donna.

Quelle di Cana sono le nozze che il Messia, il Re, stringe definitivamente con il suo popolo. Allora noi abbiamo Maria, la Madre, gli sposi per i quali si fa la festa, a cui Gesù, che non è una persona di quelle allampanate, non è un'asceta alla maniera di Giovanni, va con i suoi discepoli e quindi partecipa alla loro gioia. Però, in questo gioco di protagonisti reali, c'è anche il gioco di protagonisti  simbolici, e cioè il popolo di Dio, che è il nuovo popolo che partecipa al banchetto messianico, gioisce del vino, che è segno della gioia delle nozze e Gesù che ripropone la figura veterotestamentaria di Dio come sposo di Israele.

Intendiamoci, non è che tutto sia così pacifico, perché l'immagine delle nozze è una immagine ambigua, perché la cultura patriarcale elegge la donna nel segno della soggezione. Però, per il momento, fermiamoci a considerare il fatto gioioso, perché anche in una cultura di soggezione,  le nozze sono sempre un fatto di gratuità e di dono. C'è una poesia delle nozze che la Bibbia attesta. Pensate, per esempio, al Cantico dei cantici. Comunque, in particolare, lì c'è Maria che Giovanni interpreta, sì, come la madre di Gesù, ma soprattutto come simbolo della comunità messianica, come simbolo della chiesa, e interloquisce con lui. Ed è molto bello questo dialogo tra personaggi, che apparentemente non parlano tra di loro o addirittura che non si comprendono.

Gesù usa addirittura quell'espressione forte, che, per quanto ci si sforzi di interpretare, rimane sempre di una crudezza pazzesca: "Che cosa c'è tra me e te, o donna?". In realtà il problema di Gesù è che non vuole ancora dare inizio, non vuole svelare la sua identità di Messia. Ma il tempo è pronto.

E Maria di Nazareth viene scelta da Giovanni proprio per significare - come devo dire - l'elemento catalizzante, dirompente, quello che quasi costringe Gesù ad operare il primo dei due segni. Difatti, malgrado apparentemente Gesù sembra aver deciso di andare per la sua strada, poi, di fatti, fa quello che la Madre gli chiede, cioè venire incontro, pensate, ad un bisogno minimo, perché che il vino ci fosse o non ci fosse, visto che avevano già bevuto abbondantemente, poteva pure sembrare un piccolo dettaglio, ma non nella compiutezza della gioia, non nella compiutezza delle nozze messianiche, nelle quali il vino che, per la sua trasformazione, per la sua fermentazione, simboleggia la presenza dello spirito, viceversa è necessario, ed è necessario in grande quantità.


Le citazioni di San Paolo,  nelle Lettere, non fanno un passo indietro rispetto alla nuova visione espressa nel Vangelo da Gesù?

Allora, consentitemi una premessa, che, se fatta con termini tecnici, sarebbe un poco complicata, quindi la faccio in modo più semplice. Noi non dobbiamo metterci davanti alla Scrittura - probabilmente lo sapete già - leggendola in modo piatto. Ma nella Scrittura vanno ricercate quelle che chiamiamo "le tradizioni", cioè le diverse fasi compositive, la stratificazione del testo. È un lavoro che ormai facciamo anche con i testi classici. Bene, questa lettura delle tradizioni ci mette di fronte, nel Nuovo Testamento, ad una constatazione, che vale, in parte, anche per l'Antico Testamento: c'è quella che potremmo chiamare una tradizione delle donne, che i testi non sempre recepiscono così come ci sono giunti.

Però, siccome le donne ci sono sempre state e per quanto si prova a cancellarle, non ci si riesce a cancellarle del tutto veramente, allora, ad un esame più attento, noi scopriamo queste tradizioni delle donne, che poi sono quelle che ci hanno tramandato, per esempio, gli episodi della Passione, della Resurrezione, e così via
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Per quanto riguarda Paolo intanto noi ci troviamo non ad un corpo, che è scritto dalla medesima persona, ma ci troviamo di fronte, ad un crescendo di fasi che ci mettono dinanzi un primo periodo, un secondo periodo e un periodo addirittura postpaolino, che è quello de Le lettere pastorali. Allora noi abbiamo attestato il momento nel quale Paolo è testimone della parità di uomini e donne, di quella che si chiama con parola propria la partnership missionaria, cioè uomini e donne sedotti dall'annuncio di Gesù, convinti che Gesù è risorto, e insieme testimoniano lo zelo per il Vangelo, la passione per il Vangelo.

Per esempio, che queste donne ci fossero e fossero importantissime lo troviamo al Capitolo XVI della Lettera ai Romani, che non soltanto ci raccoglie un elenco straordinario di donne, ma per queste donne degli aggettivi, delle espressioni di stima, che, se fossero state dette per maschi, li avrebbero fatti considerare dei personaggi eminentissimi della Chiesa delle origini.

A questa fase, che è quella in fondo sintetizzata dalla Lettera ai Galati Capitolo 3 ,versetto 28: "In Cristo Gesù non c'è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo e donna", noi abbiamo il manifesto della libertà cristiana, della parità cristiana. Tra l'altro, una cosa molto interessante è che nella Scrittura uomo e donna sono espressi con tre termini diversi. Abbiamo un termine che è quello, si dice, eziologico, cioè spiega il significato del nome: Eva, madre dei viventi, Adamo il terroso. C'è quello che io dico indica l'identità di sesso ed è il nome con il quale la Scrittura dice la conformazione: la donna è la perforata, l'uomo è il puntuto. Quindi più chiaro di così si muore.

Bene, in Galati 3; 28, Paolo usa proprio questo termine, che fa riferimento, diciamo, al discorso della morfologia sessuale. C'è ancora un'altra distinzione nominale, che è quella che io chiamo della identità di genere, ed è uomo - "uoma"(ovvero, alla lettera: "uomo dalla forma femminile"), ossia, in ebraico, la distinzione 'ish - 'ishsha che, nel linguaggio di Paolo, nella fattispecie, viene ad essere tradotto allorché Paolo parla dell'uomo come ahnèr o come antropos. "Antropos" è il termine più totalizzante.

Dunque in Galati 3; 28 abbiamo indicato il discorso della identità sessuale con una piccola variante. Mentre prima è detto "né ... né", "né greco né giudeo, né schiavo né libero", la differenza, secondo Paolo, rimane: "Né ... e". Abbiamo un uch 'hai, cioè viene sancito il principio che non si dissolve la differenza, ma la differenza rimane a significare in fondo il dono fondamentale che l'uomo e la donna sono l'uno nei confronti dell'altro nel piano di Dio.

Questo orizzonte che accetta la differenza, anche se poi la argomenta secondo queste forme, se vogliamo, pittoresche, cede invece in un'ulteriore periodo, che è quello nel quale la comunità cristiana accetta il modulo culturale dominante. Lì arrivano i brani che abbiamo visto scorrere e che forse sono quelli sui quali ci sarà ancora qualche altra domanda. Non vorrei anticiparVi. Se viceversa, non ci sono domande, relative alle frasi di Paolo, circa la soggezione della donna, allora, se volete, posso anche continuare con questo discorso.

Ho visto scorrere tra le tante frasi quella che dice che la donna viene dall'uomo e che l'uomo è il capo della donna. Paolo sta seguendo un'interpretazione rabbinica, che si lega alla lettura di Genesi 1 e 2. Genesi 1 dice: "A immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò". E dunque mette di fronte la differenza di genere nella reciprocità ed è stupendo. Mentre il testo di Genesi 2 racconta questa fatica di Dio che prima plasma l'uomo, poi l'uomo non trova reciprocità, gli animali sono tutti accoppiati, lui dà loro il nome, ma non trova uno che gli sia simile.

Allora la narrazione dell'operazione chirurgica, dal suo porre su Adamo e dell'uomo tratto dalla costola. Bene, non si sa perché, nella interpretazione il primo racconto, che è molto bello, molto liturgico, molto ottimistico - ritorna continuamente il tema del bello e del buono -, è stato messo da parte, mentre si è tutto costruito su questo secondo, tra l'altro immaginando che, per il fatto che Eva è stata creata per seconda, per ciò stesso, sia, per natura, sottoposta all'uomo. In realtà si è proiettato nel racconto quello che era la presunzione che l'uomo aveva di sé.

Difatti esiste - ed è simpaticissima - una cosiddetta tradizione alternativa, che per esempio troviamo anche in Ambrogio di Milano, che sostiene che la donna invece è superiore all'uomo, perché l'uomo è stato fatto dalla terra, la donna è stata fatta dalla carne di Adamo. Adamo fu creato fuori dal giardino, Eva è stata creata nel giardino, eccetera, eccetera. Vi risparmio per dire come lo stesso fatto si prestava a interpretazioni diverse. E comunque Paolo assume questa che è una delle interpretazioni rabbiniche relative al rapporto uomo e donna.


"Le donne sono sotto la croce del Golgota": è una donna che annuncia la Resurrezione. Non crede che nella storia della Chiesa la donna abbia un po' perso in qualche modo questa sua centralità?

Allora, la centralità dello stare al Golgota le donne non l'hanno persa. Sono crocifisse e stanno con i crocifissi. Vedevo pocanzi, le abbiamo viste insieme, le stupende immagini della madre di Pasolini, perché sapete che il regista scelse la madre per interpretare Maria ai piedi della croce. E proprio mentre guardavo le immagini pensavo che era una sorta di anticipazione di quello che questa donna avrebbe poi sofferto quando, anziana, avrebbe dovuto vedere il figlio morto tragicamente. Il Golgota le donne non lo hanno perso. Lo hanno però, forse, ricevuto nella sua negatività, cioè nel peso di dolore, non nella speranza di resurrezione che comporta.

Quanto alla resurrezione, beh, forse, di annunciare alla resurrezione hanno perso o per lo meno è difficile che ci ricordiamo di loro come annunciatrici di resurrezione. Esco fuori dalla donna nella Bibbia. Voglio dire che noi facciamo tutta una retorica della donna e della vita, però, in realtà, non siamo poi coerenti. Ancora quindici giorni fa ascoltavo a Roma Rigoberta Manciù, che narrava della strage che ha subito il suo popolo, in particolare la sua famiglia. Ed era un moltiplicarsi di croci. Certo una donna come Rigoberta Manciù a questo punto è anche figura dell'annuncio della resurrezione.

Con ciò voglio dire che purtroppo la retorica della vita, retorica, spesso finisce con l'essere una sorta di catena, obbligata per le donne, le circoscrive alla cura del corpo altrui e non assegna loro una soggettualità di parola, una soggettualità di testimonianza, una soggettualità che incida nella storia. Allora, a me va bene che ci siano state le donne al Golgota, tanto più che tutti registrano che gli uomini se l'erano battuta e che stavano a guardare da lontano, tranne Giovanni, che ovviamente colloca se stesso ai piedi della croce, nel dialogo tra lui, Gesù e nell'affidamento a Maria.

Ma è l'unico racconto nel quale sappiamo della presenza, diciamo, di un maschio ai piedi della croce. Per quanto riguarda la resurrezione credo sia rimasta come regola l'attitudine dei discepoli che le prendono per matte. Dicono: "Il dolore ha fatto loro perdere il senno". Vaneggiano, hanno visto un fantasma. Mi piacerebbe molto, non soltanto come lettura della Scrittura, ma come traduzione quotidiana della Scrittura, che le donne non incarnassero soltanto il dolore, dello stare ai piedi della croce, ma fossero anche, significativamente e incisivamente, testimoni, banditrici della Resurrezione.

Ma in che cosa si differenziano le altre confessioni cristiane rispetto alla visione della donna nelle gerarchie ecclesiastiche? Ad esempio, nella Chiesa Valdese, la donna non ha un ruolo fondamentale?

Allora, è già stato detto qual è la differenza. Il ruolo fondamentale è quello del ministero. La Chiesa Cattolica ritiene, per antica e veneranda tradizione, che le donne non siano state chiamate da Gesù a far parte del gruppo dei dodici e dunque, a seguire, del gruppo dei successori dei dodici, e cioè degli apostoli, i vescovi e i loro collaboratori, i presbiteri. Per le chiese evangeliche che, all'epoca della Riforma, hanno negato la sacramentalità istituzionale del ministero - episcopato, presbiteriato, diaconato -, non è stato poi così difficile, sia pure dopo secoli, mutata la condizione culturale, riconoscere le donne come soggetti capaci del pastorato.

Ma il pastore non è nella comunità protestante, quello che il presbitero è nella comunità cattolica. Il pastore è un fratello tra i fratelli, anche se c'è un rito di ordinazione, che in qualche modo lo mostra alla comunità in questo suo ruolo. La teologia cattolica legge altrimenti la teologia del sacerdozio. E dunque è questa la differenza fondamentale. Però consentitemi di notare che, anche per quanto riguarda le chiese protestanti, sono arrivate in questo nostro secolo ad ammettere le donne al pastorato, cioè nel momento in cui, con il femminismo e con le sue rivendicazioni, con l'acquisizione alle donne di diritti civili, è obbligatoriamente cambiata anche la contestualità culturale. In particolare la Chiesa Valdese ha messo le donne al pastorato solo dopo la Riforma del Diritto di famiglia, perché, sino a quando stava scritto, nella nostra legislazione, che la moglie segue il marito là dove egli decida di porre la sua residenza, Voi capite bene che mancava la condizione perché una donna potesse essere pastore.

Nel momento in cui non è stato fatto più obbligo ai coniugi di avere la medesima residenza e non è più vincolante l'opinione del marito relativamente a questo fatto, allora anche le comunità valdesi, che sono state tra le ultime, peraltro, hanno ammesso le donne al pastorato. La chiesa antica - ed è biblica la figura - ha conosciuto le diaconesse, cioè delle donne le quali non sappiamo bene che ruolo svolgessero nella comunità.

Proprio la Lettera ai Romani comincia citando una diaconessa. Non sappiamo quale fosse esattamente il ruolo di queste figure, diaconi e diaconesse, nel Nuovo Testamento, e facciamo anche fatica a capire il ruolo di questi diaconi e diaconesse, poi, nelle comunità dei padri. Di certo - ed è interessante -, il diacono, alla lettera, è colui che serve, il servitore. Quando scompare il diaconato maschile scompare anche il diaconato femminile. E nella storia del cattolicesimo molto presto esiste un solo ministero, che è quello presbiterale, e lo stesso vescovo è differente dal punto di vista - come devo dire - giuridico, non dal punto di vista del sacramento ricevuto. Tutto questo sarà poi, in parte, cambiato dal Concilio Vaticano II.

Possiamo sostenere che la Chiesa Cattolica abbia avuto uno sviluppo misogino nei confronti delle donne? Come e quando è accaduto?

La Chiesa Cattolica è un campione storico di misoginia come lo sono altre religioni, che esistono sulla faccia della terra. Ho detto prima che il problema è quello della cultura, e la Chiesa si adegua alla cultura, interpreta la cultura. È molto difficile che la Chiesa viva in un rapporto conflittuale con la cultura. Tra l'altro non dovete intendere qui cultura come lo sto usando, nel senso in cui abitualmente lo si intende, di persone colte o di tendenza.

Dovete intenderlo nel senso antropologico-culturale, cioè come insieme organico di temi, modelli e istituzioni. La Chiesa si esprime nelle forme della cultura. Pensate, per esempio, che, quando, diventando il Cristianesimo religio licita, viene meno la religione pagana, le insegne dei sacerdoti pagani passano quasi immediatamente e naturalmente ai vescovi.

Le prerogative che quella determinata classe aveva nell'Impero Romano diventano le prerogative della nuova classe. Quindi questo deve esser chiaro. Bisogna dire che il Cristianesimo ha una sua parola colta, irresolubile aporia, cioè è contraddittorio, perché mentre nega alle donne una visibilità, un protagonismo sul piano della storia, riconosce l'assoluta parità di uomini e donne sul piano della grazia. Ed è qui che il discorso fa corto circuito, perché proprio la citazione di Galati 3; 28 : "In Cristo Gesù non c'è più né uomo né donna", sta a significare che, di fronte alla redenzione, alla salvezza, che poi è la grande categoria interpretativa del Cristianesimo, come di ogni fenomeno religioso, non c'è differenza tra uomini e donne. Le donne hanno salvezza né più né meno come ce l'hanno i maschi.

E, siccome per i cristiani la salvezza è diventare Cristo, le donne diventano Cristo né più né meno come ci diventano i maschi. Per esempio, c'è una grossa differenza rispetto all'Islam, che non considera la donna nella sua soggettualità religiosa. Anche Israele considerava la donna come soggetto religioso, anche se non gli dava una soggettualità religiosa pubblica.

Però, a fronte di questa considerazione, che non c'è differenza in ordine alla grazia, la differenza c'è poi in ordine alla storia, per cui i grandi protagonisti saranno soltanto i maschi e le donne dovranno rosicchiarsi uno spazio fondamentalmente in due modi: attraverso la santità, o attraverso il riferimento al dono dello spirito. Saranno la mistica e la santità il banco di prova delle donne e il modo in cui le donne faranno la storia. Guardate che la fanno molto seriamente, perché tra l'altro la mistica e la santità sono anche esercizio di sapienza.

Bisogna pure dire un'altra cosa. Voi siete ragazzi colti e dunque mi posso permettere queste battute: che senza il Cristianesimo probabilmente noi non avremmo avuto le donne soggetto di cultura, perché la forma che ci può sembrare più paradossale di segregazione femminile e di riproposizione della esclusione o del marchio iscritto nella loro sessualità - l'ascesi, la verginità, eccetera, eccetera -, diventa per le donne l'occasione di vivere in una sorta di gineceo filosofico. Le donne studiano la Scrittura, le donne scrivono, commentano, talora predicano.

C'è Ildegarde de Duby, che fu  una grande predicatrice medioevale. Senza il Cristianesimo probabilmente questi lussi non se li sarebbero permessi. Paradossalmente, quando le donne nella storia della comunità cristiana escono dal chiostro e cominciano la vita attiva allora viene negata loro la scienza e la sapienza.

La loro mistica diventa mistica di diavoli e di miracoli. Non so se mi sono spiegata. Cioè c'è una mistica che è di tipo sapienziale, è fatta, sì, di esperienza con Dio, ma di conoscenza di Dio. E, viceversa, c'è un'esperienza, che è quella del vedere da per tutto miracoloso, immaginoso, diabolico, eccetera eccetera. Ora noi dobbiamo, paradossalmente, alla misoginia culturale se le donne hanno messo a profitto tanta risorsa culturale. Oggi la situazione è, per grazia di Dio, molto diversa, ma non ci si può illudere che la partita sia vinta. Certo siamo lontani, almeno dalle forme invereconde di misoginia, che, ripeto, una cultura fondamentalmente misogina si poteva permettere.

Vorrei tornare al ruolo della donna nel Nuovo Testamento e chiederLe come può essere vista e letta la figura di Maria, che da una parte può rappresentare comunque la prescelta, ma dall'altra, in quanto donna, è subordinata.

Sì, in effetti Maria è un bel rompicapo. Le teologhe femministe, quando scoprirono Maria, dissero che era una donna da liberare. Ci sono delle pagine molto belle di Catharina Alkes, una olandese, che è una sorta di grande madre delle teologhe europee, grande madre della teologia femminista, la quale proprio scrivendo: La teologia femminista, ne La teologia della liberazione, venne fuori con lo slogan che Maria era anzi tutto "una donna da liberare". In effetti quello che ci hanno detto di Maria e la Maria che ci hanno presentata è il massimo del nascondimento e della sottomissione. Quando io ero ragazzina libri di pietà parlavano del silenzio di Maria, dimenticando che Luca pone sulle sue labbra il Magnificat, cioè un lungo componimento, che sicuramente non l'ha composto Maria, ma il fatto che Luca glielo attribuisca dice una presa di parola, a parte che la costruzione letteraria di Luca, la vede dialogare con l'Angelo per essere fatta convinta, mentalmente convinta di quello che le sta capitando.

Allora bisogna liberarsi della figura della statuina o del santino Maria, perché francamente non ha nessun referente biblico. La Maria della sottomissione, della passività, la Maria, quella che va per la maggiore nei santini che corrono in certi ambienti pii, cioè vestita di bianco, col velo azzurro, gli occhioni grandi, tipo, non so, Barbie o non so chi, guardate, ecco, quella è la Barbie mariana, cioè questa Maria nascosta, di cui non si vede mai il corpo, per carità, la Scrittura non ci presenta assolutamente questa donna. Ci presenta una donna che il figlio tratta con durezza, che fa difficoltà a capire il figlio. "Che c'è tra me e te, o donna!" è una di queste. Gesù arriva a dire - e lo registrano Marco e Luca - che quegli è sua madre, quelli sono i suoi fratelli e le sue sorelle: "Quelli che fanno la volontà del Padre mio". E a chi dice: "Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha nutrito", dice ancora una volta:" Non beati questi, ma quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica".

Allora bisogna capire Maria come una donna, che vive un qualcosa di incomprensibile, al di sopra di quello che è compatibile con le regole, diciamo, della esistenza umana e che per di più, anziché essere, per così dire, premiata, deve rinnegare la maternità, secondo la carne, per diventare madre e sorella al figlio nel discepolato. Luca presenta Maria come la perfetta discepola. Se vogliamo essere maliziosi, dobbiamo dire pure che per Luca le donne, perfette discepole, devono stare anche zitte. Ma lì entra lui in contraddizione. Sono dettagli nei quali cade anche un agiografo. Però, ripeto, quello che a noi importa adesso non è il discorso del silenzio, ma è il discorso del discepolato. Maria, come tutti i credenti, deve mettersi alla sequela del figlio. Questa è l'immagine di Maria, l'immagine teologica, che troviamo tanto nel Vangelo di Luca che nel Vangelo di Giovanni.

Il Vangelo di Giovanni è apparentemente quello che dà a Maria il massimo del protagonismo, perché la pone all'inizio del Libro dei Segni e poi la pone lì nel contesto del Libro della Passione del Signore. Non è l'unica donna, ci sono anche altre donne, perché Giovanni usa le donne come figure prolettiche, cioè quello che sta per avvenire lo fa vivere simbolicamente attraverso figure femminili che precedono la scansione dei libri. Però, ripeto, sia Luca, con la sua concezione un po' strettina del discepolato femminile, sia Giovanni, che invece è molto femminista, perché ha un'enorme considerazione delle donne, della loro presenza nella Chiesa, concordano in questa figura di Maria come discepola.

E, credetemi, è una cosa molto seria, perché il problema vero e forte non è quello dell'esser madre, ma è quello dell'essere discepola. Alla fin fine, Maria non ci mette niente. "Sì, d'accordo", dice il suo sì, tutto quello che volete, non voglio minimizzare la sua vocazione, ma, forse proprio per questo, diventa estremamente difficile accettare la sconfitta, accettare d'essere rinnegata nei suoi diritti di madre, accettare che questo figlio, anziché preoccuparsi di lei, se ne vada tranquillamente. Io sono convinta che Maria ha seguito Gesù e faceva parte del gruppo delle donne della sequela. In realtà noi troviamo Maria soltanto nel contesto della Passione.

Non abbiamo una testimonianza della presenza di Maria durante il ministero. Comunque non è senza significato questa presenza di Maria, che è testimoniata dal Vangelo di Giovanni. Ammesso pure che sia teologia, diciamo non storia - d'altra parte la Scrittura non è mai storia -, ma quello che importa è il messaggio, ciò che il messaggio comporta. Quindi Maria è una figura positiva tutta da riscoprire, ma da riscoprire in questa sua genuina originalità.

D'altra parte, guai se le donne si chiudessero nel carcere del loro grembo. Avremmo soltanto una funzionalità di tipo biologico. Anche la maternità come fatto personale importa una dialogia, un riconoscimento del rispetto del figlio. Se io non taglio il cordone ombelicale - ma davvero! - non ho diritto di interloquire con mio figlio. Il figlio va preso nella sua gratuità. Questa parabola umana è quella che Maria fa e proprio per ciò la comunità cristiana negli Atti degli Apostoli, 1; 14, la addita, mostrandola in preghiera con i discepoli altezza dello spirito come il modello della perfetta credente, che non è cosa da poco.


Volevo sapere se esiste una particolare ragione per cui la misoginia può sembrare una costante delle tre grandi religioni monoteiste.

Ripeto ancora: l'affermazione da cui sono partita è una costante perché da quando (secondo quelli che sostengono questa tesi)  tribù che venivano dalla steppa hanno cambiato la nostra cultura, da matriarcale che era, in patriarcale, quello che ha dominato nella storia è il principio di una supremazia del maschio, acquisita sul campo, non vi so dire di che, probabilmente del tipo di struttura e dunque di funzione, che egli esercitava per la sopravvivenza del gruppo umano. Le tre grandi religioni nelle loro contraddizioni attestano tuttavia, tutte indistintamente, compresa l'Islam, ed è un'affermazione che faccio, diciamo, con sofferenza, visto quello che è il quadro e i problemi che oggi l'Islam pone, tutte le religioni hanno germi di filogenia e hanno invece, fortemente emergente, soprattutto nei loro interpreti, questo filone di misoginia. Ma guardate che misogina è anche la cultura in cui viviamo.

Occorre veramente promuovere una cultura inclusiva, una cultura della reciprocità. Bisogna veramente riconoscere l'altro nella reciprocità di genere. E, credetemi, non è una cosa così semplice. Chiudo con un aneddoto che mi riguarda. Prima di accostarci alla Comunione noi diciamo una preghiera, che abbiamo detto da tanto tempo, da quando è in italiano, ma era così in latino, con il genere maschile: "Signore non sono degno di partecipare alla tua mensa, ma dì soltanto una parola ed io sarò salvato/a". Bene, io, Cettina Militello, la comincio al maschile e la finisco al femminile. Il che dice quanto per me stessa è difficile usare un linguaggio inclusivo. Il condizionamento culturale è molto forte.

Bisognerebbe, con passione, trarre dalla Scrittura e dalle Scritture delle grandi religioni il messaggio di liberazione che esse realmente possiedono, ma che i detentori maschili della interpretazione delle Scritture stesse non hanno permesso lievitasse e fermentasse. Oggi abbiamo donne ebree che accostano la thorà con criteri di ispirazione femminista. Abbiamo donne musulmane che accostano il Corano con criteri parimenti ispirati al femminismo. Abbiamo, per grazia di Dio, teologhe cristiane che accostano l'Antico e il Nuovo Testamento con nuove metodologie. È un piccolo tassello che, unito allo sforzo di filosofe, sociologhe, antropologhe, scienziate, eccetera, porta in sé il germe di una cultura finalmente rispettosa degli uomini e delle donne
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