Corso di Religione

Dio e la peste
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“Non chiediamo a Dio di arrestare l’epidemia, ma liberiamo energie d’amore”: l’invito del biblista Alberto Maggi. Alberto Maggi - il libraio.it 2020

Erano stati ormai quasi dimenticati. Se ne stavano ancora silenti e immobili nelle loro nicchie, confinati nel passato, quei santi che un tempo avevano svolto un ruolo talmente importante da oscurare persino la potenza di quel Dio al quale “nulla è impossibile” (Lc 1,3).

Il Padreterno era considerato troppo lontano, i santi erano più vicini. Di Dio si aveva timore, nei santi confidenza. Dal Signore ci si aspettava i castighi, dai santi la protezione. Erano queste le effigie e le statue dei santi protettori, ognuno per la sua specialità, e ognuno per il proprio campanile, spesso in concorrenza tra un paese e l’altro.

Alcuni santi sono stati imbattibili nella loro protezione, per esempio è difficile anche solo intaccare il primato assoluto di  San Rocco , specializzato per la peste e protettore delle epidemie, alla pari con la “santa dei casi impossibili”, santa Rita da Cascia.

Tra questi, in maniera abusiva, si era inserito anche il martire San Sebastiano. Non c’entrava nulla con la peste, ma le ferite causate dalle frecce scagliate nel suo corpo, furono viste come i bubboni provocati dalla pestilenza.

E l’elenco è lungo, non c’è malattia che non abbia il suo santo protettore. Affidarsi all’intercessione di questi santi era, per i credenti nei secoli passati, l’unico rimedio per essere protetti da malattie, infezioni, epidemie.

Poi a mano a mano che le scoperte scientifiche fecero grandi passi in avanti, (basta pensare l’invenzione, verso il XVII secolo, del microscopio), migliori condizioni igieniche, abitazioni più salubri, la creazione degli ospedali, la scoperta dei vaccini, fecero sì che gradualmente questi santi, pur rimanendo nell’affetto e nella devozione popolare, tornassero gradualmente a riposare nelle loro nicchie, muti custodi di un passato dove religiosità, superstizioni, credenze pagane si mescolavano assieme.

Un tempo lontano, dove si faceva più ricorso alla loro intercessione, insieme con quella delle varie madonne, piuttosto che rivolgersi, come Gesù aveva insegnato, direttamente al Padre (“Voi dunque pregate così: Padre nostro…”, Mt 6,9), un Dio che “sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate” (Mt 6,7).

Mentre per pregare Dio occorreva situarsi in un luogo sacro, sinagoga o tempio, per pregare il Padre non c’è bisogno, si può restare nel proprio ambito, “quando tu preghi, entra nella tua camera” (Mt 6,6).

Il destino di questi santi è stato identico a quello di una delle celebrazioni più importanti del passato, in un mondo prevalentemente agricolo, dove in aprile si svolgevano le processioni delle rogazioni, pressanti suppliche a Dio perché facesse piovere sui campi.



Si dice, un poco irriverentemente, che sono state le irrigazioni a porre fine alle rogazioni… in realtà, con il perfezionarsi del servizio meteorologico, non c’è alcun bisogno di pregare per chiedere che cada la pioggia, basta osservare il meteo; se c’è una vasta area di alta pressione, si può pregare con tutta la fede possibile, ma non cadrà una sola goccia d’acqua.

Era quello un mondo, dove tutto quel che accadeva si riteneva provenisse da Dio, sia il bene sia il male. Del resto, come insegnava la Bibbia, “Bene e male, vita e morte, tutto proviene dal Signore” (Sir 11,14), ed era credenza comune che non “avviene forse nella città una sventura che non sia causata dal Signore?” (Am 3,6).

Per questo non c’era dubbio che la peste fosse un castigo, una maledizione mandata da Dio contro il popolo peccatore. Il capitolo ventotto del Libro del Deuteronomio, contiene una cinquantina di maledizioni scagliate contro i trasgressori del volere divino, e tra queste si legge che “Il Signore ti attaccherà la peste, finché essa non ti abbia eliminato dal paese” (Dt 28,21). 

La peste era usata come una minaccia sempre pendente sul popolo se non obbediva (“manderò in mezzo a voi la peste”, Lv 26,25), e quando questa arrivava, erano dolori: “il Signore mandò la peste in Israele, da quella mattina fino al tempo fissato, da Dan a Bersabea morirono tra il popolo settantamila persone”.

Poi, per fortuna, “il Signore si pentì di quel male e disse all’angelo devastatore del popolo: Ora basta! Ritira la mano!” (2 Sam 24,15-16). Se era Dio l’autore della peste, l’unico rimedio era mostrarsi pentiti dei propri peccati, digiunare, cospargersi il capo di cenere e vestire di sacco (Lc 10,13), offrirgli sacrifici sperando fossero a lui graditi.

Gesù, “immagine del Dio invisibile” (Col 1,15), ha presentato un volto completamente diverso del Signore. È un Padre che è amore, e continuamente offre il suo amore agli uomini, indipendentemente dal loro comportamento. Nel Padre non c’è castigo, ma solo perdono. Il suo amore è talmente gratuito da essere “benevolo verso gli ingrati e i malvagi” (Lc 6,35).

Sembrava che la comunità cristiana avesse finalmente capito questo, e compreso che in caso di calamità non c’è da rispolverare statue da portare in processione (con il progresso ora questi santi sono persino caricati su aerei che, come se fossero dei canadair , sorvolano il territorio in una sorta di disinfestazione spirituale). 

No, non c’è da supplicare Dio perché non mandi o arresti i suoi flagelli, perché non è lui l’autore, ma occorre collaborare attivamente con il Creatore, per la realizzazione del suo progetto sull’umanità sapientemente descritto nel Libro della Genesi (Gen 1-2), dove l’autore non descrive un paradiso irrimediabilmente perduto, da dover rimpiangere, ma profetizza un paradiso da costruire, realizzando la piena armonia delle creature con il creato e il suo Creatore.

Un appello questo, da sempre pressante e urgente, come scrive Paolo nella Lettera ai Romani, perché “l’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio”, una creazione che “geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi” (Rm 8,19.22). 

Non c’è da chiedere a Dio che arresti la peste, ma c’è da rimboccarsi le maniche e liberare nuove inedite energie d’amore e di generosità capaci di arginare il male, nella certezza di essere “più che vincitori” (Rm 8,37), perché “la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta” (Gv 1,5), e mai vinceranno.

Nei giorni del virus per incontrare Dio non servono Chiese e celebrazioni

Alberto Maggi - il libraio.it 2020

L’emergenza causata dal micidiale virus, che dilaga e infetta ovunque e chiunque nel mondo intero, genera una situazione talmente nuova che neanche in caso di terremoti, o conflitti era stata mai vissuta.

In guerra ci si può salvare fuggendo, scendendo nei rifugi, ma con il virus questo non è possibile, non esistono vie di fuga, e l’unica difesa è di impedirgli di diffondersi, attraverso la restrizione dei normali comportamenti, evitando il più possibile ogni contatto tra gli individui.

Se durante la guerra le persone trovavano conforto andando a pregare in chiesa, ora con il virus non si può; le chiese restano chiuse perché altrimenti diventano luoghi privilegiati di contagio.

La fede non sostituisce le normali misure d’igiene, ma le presume. È bene pregare il Signore che ci aiuti a superare il momento, ma non per questo si è legittimati a mettersi in situazioni di pericolo (“Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”, Mt 4,4; Dt 6,16).

La chiusura delle chiese causa disorientamento tra i fedeli, posti di fronte a una situazione che non ha precedenti. Costoro si sentono smarriti, disorientati, manca un punto importante di riferimento, perché con tale chiusura non c’è neanche la possibilità di partecipare alla celebrazione eucaristica.

Ma i vangeli e la tradizione insegnano che non è solo la chiesa il luogo per incontrare Dio, e non è solo la celebrazione eucaristica quel che può nutrire il credente.

Nell’eucaristia, Gesù, il Figlio di Dio, si fa pane, affinché quanti lo mangiano e assimilano, siano poi capaci anch’essi di farsi pane, nutrimento, fattore di vita per gli altri, e avere così la sua stessa condizione divina. Questo pane va mangiato, come espressamente chiesto da Gesù “prendete mangiate” (Mt 26,26), il suo è un invito dinamico (“Fate questo…”, Lc 22,19), non statico.

Pertanto nel corso della cena eucaristica i primi credenti continuarono a fare quel che il Signore aveva fatto, mangiando insieme questo pane e diventando gli uni nutrimento per l’altro, consentendo così la fusione intima della presenza di Dio nei suoi figli.

Poi il pane consacrato veniva portato agli ammalati che non avevano potuto partecipare alla cena (nell’agiografia cristiana divenne molto popolare san Tarcisio , il giovanetto morto martire perché portava il pane eucaristico ai prigionieri).

Questo pane consacrato per malati e prigionieri era conservato nella sacrestia (che da questo uso prende il suo nome), dove i suddiaconi l’andavano a prelevare per recarla a chi ne aveva bisogno.

Poi gradualmente, dalla sacrestia, il pane eucaristico si spostò in chiesa, dove per evitare abusi, il IV Concilio Lateranense (1215) prescrisse di custodirlo  sotto chiave, consolidando la pratica dei “tabernacoli” (dimore) murari; tuttavia nelle basiliche più antiche al tabernacolo era riservato solo uno degli altari laterali e non il principale, come invece avvenne nei secoli successivi, fino a diventare la parte più importante e sacra della chiesa.

Nacquero allora devozioni popolari quali l’adorazione eucaristica e la “visita al Santissimo”, appuntamento raccomandato per i laici, ma imposto nei seminari, dove i futuri preti erano obbligati ad andare quotidianamente a fare compagnia al “Divin prigioniero”, quel Gesù che “per amore dell’uomo ingrato, si è fatto prigioniero nel Divin Sacramento”, come recitava una devota preghiera.

Fu pertanto a causa dell’eucaristia conservata nel tabernacolo, che la chiesa venne erroneamente considerata la “casa di Dio”.

Ma la chiesa, non è la “casa di Dio”, un luogo sacro, bensì il locale del popolo di Dio, che lì si raduna per le celebrazioni, come insegna la più antica tradizione della Chiesa: “Non è il luogo che santifica l’uomo, ma l’uomo il luogo” (Costituzioni apostoliche, VIII, 34,8), e papa Sisto (V sec), dedicò la Basilica di Santa Maria Maggiore al popolo di Dio, come si può leggere nel mosaico dell’arco trionfale dell’abside “Xystus episcopus plebi Dei” (Sisto vescovo al popolo di Dio).

Gesù ha liberato l’uomo da ogni spazio sacro,
non esiste casa di Dio che non sia l’uomo, per questo ha auspicato la scomparsa di ogni santuario (“Viene l’ora in cui né su questo monte è a Gerusalemme adorerete il Padre… i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità”, Gv 4,21.23), e l’autore dell’Apocalisse, nel descrivere la nuova realtà inaugurata da Gesù proclama: “Non vidi alcun tempio in essa perché il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio” (Ap 21,22).

 Il luogo dell’incontro con Dio è Gesù Cristo e con lui ogni uomo che lo accoglie: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23).

L’uomo è l’unico vero santuario dal quale si manifesta e irradia l’amore del Padre per le sue creature. È questa la fede del credente. “Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?” (1 Cor 3,16) scrive Paolo, talmente convinto di questa realtà da affermare “Cristo vive in me” (Gal 2,20).

Per questo la presenza del Cristo non si limita alla chiesa, al santissimo sacramento. L’incontro con Dio non è condizionato da luoghi o celebrazioni, ma è reale e autentico ogni qualvolta il suo amore viene comunicato e arricchisce la vita degli altri.

Sta all’uomo rendersi conto, nella sua vita, di quella presenza divina che continuamente guida, accompagna e segue la sua esistenza, come esclama lo stupefatto Giacobbe “Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo” (Gen 28,16).


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