Corso di Religione

         


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Malattie e liberazione. Il Regno è ( già) in mezzo a voi ( è in voi) di A. Maggi www.studibiblici.it

Gesù inizia la sua attività liberando e guarendo le persone sottomesse all’istituzione religiosa, come descrive l’evangelista Matteo: “E percorreva l'intera Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e proclamando la buona notizia del Regno e guarendo ogni malattia e infermità nel popolo” (Mt 4,23).

L'evangelista segnala una presa di distanza dalle istituzioni religiose giudaiche (loro sinagoghe), dove Gesù non va per partecipare al culto, ma per insegnare, liberando così il popolo da quelle false immagini di Dio inculcate dall'insegnamento della tradizione giudaica . Nella Bibbia si legge che “Bene e male, VITA e morte, povertà e ricchezza provengono dal Signore” (Sir 11,14), un Signore che definisce se stesso con queste parole: “Io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e provoco la sciagura; io, il Signore, compio tutto questo” (Is 45,7), e assicura che non “avviene nella città una disgrazia che non sia causata dal Signore” (Am 3,6).

La credenza, contenuta nell'Antico Testamento, che sia Dio l'autore delle sciagure che si abbattono sull'umanità, lascia all'uomo solo la possibilità di accettare rassegnato quel che il Signore gli manda, sperando che non calchi troppo la mano: “Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremo accettare il male?”, replica Giobbe alla moglie che lo rimprovera per aver benedetto l Signore per tutte le disgrazie piovutegli addosso (“il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore”, Gb 1,21.2,10).

La convinzione che mali e malattie siano un castigo inviato da Dio per le colpe degli uomini, è così radicata all'epoca di Gesù che, quando un ebreo incontra una persona con qualche grave handicap, benedice il Signore autore del meritato castigo: “Chi vede un mutilato, un cieco, un lebbroso, uno zoppo, dica: Benedetto il giudice giusto” (Ber. 58b). Ma se la malattia è sempre in relazione al peccato dell'uomo, come poteva spiegarsi la sofferenza dei bambini, indubbiamente innocenti?

Per i rabbini, la soluzione era molto semplice: i piccoli sono il capro espiatorio delle colpe degli adulti, come insegnano Bibbia e Talmud che presentano un “Dio geloso che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione” (Es 20,5); “Quando in una generazione vi sono dei giusti, i giusti sono puniti per i peccati di quella generazione. Se non vi sono giusti, allora i bambini soffrono per il male dell'epoca” (Shab. 33b).

Gesù con il suo insegnamento e la sua attività smentisce questa falsa immagine di Dio. Dio è colui che libera dalle malattie (“Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità”, Sal 103,3), e non colui che le invia.

Questa opera di liberazione è il contenuto della “buona notizia” (gr. euanghelion, vangelo, Mt 9,35; 24,14; 26,13).

L’attività di Gesù, il “Dio con noi” (Mt 1,23), consisterà nell'eliminazione di quelle infermità che sono nel popolo, cioè quegli impedimenti dai quali devono essere liberati per poter seguire Cristo.
La fama di Gesù si estende al di là dei confini della Galilea, e raggiunge la terra pagana: “Giunse la sua fama per tutta la Siria e conducevano a lui quanti avevano male e tormentati da varie malattie e dolori, indemoniati, lunatici e paralitici; ed egli li guarì” (Mt 4,24). Inizia già a delinearsi un regno i cui confini non sono limitati a Israele, ma estesi a tutta l'umanità: anche i pagani sono i beneficiari dell'azione risanante di Gesù.

Il regno di Dio è l’estensione universale dell’amore di Dio dal quale nessuno può essere escluso.

Gesù non chiede agli infermi di accettare la loro malattia come espressione della volontà divina, o di offrire a Dio le proprie sofferenze per salvare l’umanità peccatrice.

Neanche afferma che queste sofferenze siano state loro inviate da Dio, come croce da portare per tutta la loro esistenza. No.

Gesù semplicemente guarisce.

Gesù non elabora una teologia del male o una spiritualità della sofferenza.

Lui non dà spiegazioni, agisce. Non teorizza, lui risana.
Là dove c’è morte lui comunica VITA, dove c’è debolezza lui trasmette forza, dove c’è disperazione infonde coraggio. L’azione del Cristo non è solo una risposta alle domande di aiuto (“Se vuoi, puoi purificarmi!”, Mc 1,40). Gesù precede le richieste degli infermi, risuscitando la speranza in chi aveva perduto ormai ogni illusione: “ Vuoi guarire ?” (Gv 5,6).

Gli evangelisti non intendono certo presentare ingenuamente Cristo come una specie di pronto-soccorso ambulante risolutore di tutte le infermità del popolo. Gli autori dei Vangeli non redigono una cronaca, ma una teologia, non sono interessati alla storia, ma alla fede , non intendono narrare dei fatti ma comunicare delle verità.

Gli evangelisti denunciano lo stato di prostrazione del popolo causato dal dominio della casta religiosa al potere.

L’istituzione religiosa fa ammalare le persone privando l’uomo di libertà e di iniziativa, impedendo la sua maturità.
Il popolo non può permettersi di avere autonomia di pensiero e di condotta (“Ha forse creduto in lui qualcuno dei capi o dei farisei? Ma questa gente, che non conosce la Legge, è maledetta!”, Gv 7,49).

Inoltre, per mantenere il popolo sempre sottomesso e docile ai suoi voleri, l’istituzione religiosa deturpa il volto di Dio, presentandolo come uno spietato tiranno di cui occorre aver paura, un Dio nel nome del quale è possibile togliere la VITA, arrivando a uccidere persino quelli del proprio sangue, per lavare l’offesa alla divinità, come ordinò Mosè dopo il tradimento del vitello d’oro:

“Mosè vide che il popolo non aveva più freno, perché Aronne gli aveva tolto ogni freno, così da farne oggetto di derisione per i loro avversari. Mosè si pose alla porta dell’accampamento e disse: «Chi sta con il Signore, venga da me!». Gli si raccolsero intorno tutti i figli di Levi. Disse loro: «Dice il Signore, il Dio d’Israele: “Ciascuno di voi tenga la spada al fianco. Passate e ripassate nell’accampamento da una porta all’altra: uccida ognuno il proprio fratello, ognuno il proprio amico, ognuno il proprio vicino”». I figli di Levi agirono secondo il comando di Mosè e in quel giorno perirono circa tremila uomini del popolo. Allora Mosè disse: «Ricevete oggi l’investitura dal Signore; ciascuno di voi è stato contro suo figlio e contro suo fratello, perché oggi egli vi accordasse benedizione» (Es 32,25-29).

È la paura di Dio causata dalla religione la causa principale delle malattie da cui Gesù guarisce.

Gli evangelisti non intendono infatti presentare un elenco di patologie mediche, ma, adoperando il linguaggio dei profeti, usano le infermità corporali per indicare quelle ancora più gravi che appartengono allo spirito umano.
“Fa’ uscire il popolo cieco, che pure ha occhi, i sordi, che pure hanno orecchi” (Is 43,8); “Ascolta, popolo stolto e privo di senno, che ha occhi ma non vede, ha orecchi ma non ode” (Ger 5,20).

Per i giudei Gesù non è pericoloso per aver ridato la vista a un cieco, ma per avere aperto gli occhi al popolo (Gv 9). La buona notizia del Regno è per questo strettamente collegata alla guarigione di ogni malattia e infermità: “Gesù percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, proclamando la buona notizia del Regno e guarendo ogni sorta di malattia e infermità...” (Mt 9,35).

C’è una stretta relazione tra il contenuto della buona notizia (Dio è amore) e la salute degli uomini.

E se la guarigione è opera della Buona Notizia, le cause dell’infermità del popolo vanno ricercate in una dottrina che si contrabbandava come volontà divina, quando era soltanto invenzione umana per dominare e sottomettere il popolo (“Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”, Is 29,13; Mt 15,9; Mc 7,6).
L’azione di Gesù nasce dalla sua compassione. Questa non è un sentimento, ma un’azione esclusiva di Dio con la quale il Signore comunica VITA a chi non l’ha: “vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e scoraggiate, come pecore che non hanno pastore...” (Mt 9,36). Nel suo operato Gesù constata la situazione drammatica in cui giace il popolo.

Mentre Mosè aveva stabilito che ci fosse sempre un uomo valido affinché “la comunità del Signore non sia un gregge senza pastore” (Nm 27,17; Zc 10,2), ora nessuno si prende cura di questo popolo che, mancando di un orientamento, sta perdendo progressivamente le forze. In realtà non è che mancassero i pastori: è che questi curavano solo il loro interesse, a scapito di quello del popolo del quale erano chiamati a prendersi cura, come aveva denunciato il Signore tramite il profeta Ezechiele:

“Guai ai pastori d’Israele, che pascono se stessi! I pastori non dovrebbero forse pascere il gregge? Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge. Non avete reso forti le pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza. Per colpa del pastore si sono disperse e sono preda di tutte le bestie selvatiche: sono sbandate” (Ez 34,2-5).

Vista la carenza di pastori e lo sbandamento delle pecore, ci si aspetterebbe che la preghiera di Gesù fosse perché il Signore inviasse pastori per il suo gregge. Invece Gesù parla di operai: “La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!” (Mt 9,37-38).Gesù ha inVITAto i discepoli a seguirlo per essere “pescatori d’uomini” (Mt 4,20; Mc 1,17; Lc 5,10) e non pastori. L'unico pastore del gregge è il Signore (Gv 10,11), che ha bisogno di collaboratori, di operai, ma non di altri pastori.

Al contrario dei rappresentanti dell’istituzione religiosa, che si sono appropriati del gregge per soddisfare la propria ambizione di potere, i discepoli sono inVITAti a riconoscere che l’unico Signore del gregge e della messe è Dio (Ez 34,31), e il loro ruolo, in quanto operai, è solo di collaboratori, che Gesù invia, dando “loro il potere di scacciare gli spiriti impuri e di guarire ogni sorta di malattie e d’infermità” (Mt 10,1).

Gesù non incarica i discepoli di insegnare dottrine, ma di trasmettere una Forza VITALE ( lo Spirito) capace di liberare e di guarire.

Infatti, mediante l’annuncio del messaggio del Regno i discepoli potranno liberare gli uomini da tutto ciò che domina (“spirito impuro”) e limita la loro VITA (“malattie e infermità”) .

L'attività dei dodici sarà un prolungamento di quella di Gesù (Mt 9,35) venuto perché gli uomini “ abbiano VITA ( zoe) e l’abbiano in abbondanza ” (Gv 10,10), e un’ estensione dell’azione creatrice del Padre, autore e “amante della VITA” (Sap 11,26)
Gesù ha curato gli infermi (Mt 8,16; 9,35), risuscitato la figlia di uno dei capi (Mt 9,18-26), purificato il lebbroso (Mt 8,2- 4) e cacciato i demòni (Mt 9,32). I discepoli sono inVITAti a continuare l’attività di Gesù nel presente: “Strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino. Gli infermi guarite, i morti risuscitate, i lebbrosi purificate, i demòni scacciate” (Mt 10,7-8).

“Regno dei cieli” è una formula presente esclusivamente nel vangelo di Matteo per indicare il regno di Dio (scrivendo a dei Giudei l’evangelista eVITA quando può di scrivere il nome divino, per essi impronunciabile, Es 20,7).

Il regno di Dio indica il governo di Dio sugli uomini. E il Signore non governa emanando leggi che gli uomini devono osservare, ma comunicando loro la sua stessa capacità d’amore (lo Spirito) che li rende capaci di amare così come si sentono amati.

Essendo una comunicazione d’amore, l’invio dei discepoli si conclude con la proibizione assoluta di tassare l’amore ricevuto gratuitamente.

Come il Padre ama senza condizioni, così questo amore venga trasmesso: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8).
Il compito al quale Gesù affianca ora i suoi discepoli è quello di presentare un Dio diverso da quello imposto dall’istituzione religiosa. Nella religione viene imposto un Dio che incute paura. Nella fede [nella rivelazione divina che è Gesù n.d.r.] viene offerto un Dio che toglie e libera da ogni paura (1 Gv 4,18).

Perché il Dio della religione incute paura, perché i suoi castighi sono terrificanti? Perché Gesù presenta Dio come un Padre che ama i suoi figli indipendentemente dal loro comportamento?

Perché il Dio della religione castiga severamente i malvagi e il Padre di Gesù avvolge anche questi con il suo amore (“Sarete figli dell’altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi”, Lc 6,35)?

Dio è sempre stato lo stesso, non è cambiato. È solo cambiato il modo (e l’interesse) di farlo conoscere.

Chi con il suo insegnamento non intende comunicare VITA, (la gloria di chi l’ha inviato), ma ricerca solo la propria gloria, piegherà e falsificherà Dio per i propri scopi.

“Chi parla da se stesso cerca la propria gloria. Ma chi cerca la gloria di colui che l’ha inviato, è veritiero e in lui non c’è ingiustizia” (Gv 7,18)
Coloro che cercano il proprio prestigio o la propria gloria, non parlano in nome di Dio, ma di se stessi, e prima o poi giungono a sacrificare l’uomo al proprio interesse. Quanti intendono dominare il popolo hanno bisogno di presentare un Dio dominatore, e spacciare per Legge di Dio quelle che sono le loro misere idee e pretese (“Annullando la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi”, Mt 7,13).

Il Dio presentato dalle autorità religiose è una divinità che è stata manipolata e piegata agli interessi della casta sacerdotale. È una divinità che legittima il loro dominio sul popolo, una divinità nemica dell’uomo, un dio malefico che accetterà come culto la sofferenza e il sacrificio degli uomini: “chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio” (Gv 16,2).

Criterio fondamentale per discernere quanti cercano la propria gloria e quella del Signore, è che i primi si rifanno alla Legge di Dio e i secondi all’amore del Padre.

Mentre è possibile manipolare e falsificare la Legge per i propri interessi, l’amore no: se viene manipolato e falsificato non è più amore, e anziché trasmettere VITA è sterile e non comunica nulla.
I capi religiosi in nome della Legge di Dio dominano il popolo. Gesù in nome dell’amore del Padre si mette a servizio del suo popolo. Gesù che cerca non il suo onore ma l’onore del Padre, non la propria gloria ma quella di chi l’ha inviato, è in piena sintonia con l’azione creatrice di Dio, per questo ogni sua parola trasmette la ricchezza di VITA che contiene, e non è un semplice suono vuoto (“Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna”, 1 Cor 13,1).

Il Dio dell’istituzione religiosa era una divinità estremamente esigente, di fronte alla quale nessuno poteva osare presentarsi “a mani vuote” (Es 34,20; Dt 16,16), un Dio avido che pretendeva il frutto del lavoro degli uomini (“Ogni decima della terra, cioè delle granaglie del suolo e dei frutti degli alberi, appartiene al Signore: è cosa consacrata al Signore”, Lv 27,30) e ogni sorta di offerte per il suo culto (Ez 46,13-17).

Per imporre i loro ordinamenti come legislazione divina, i capi religiosi avevano dovuto presentare l’immagine di un Dio pronto a castigare in maniera severa chiunque avesse trasgredito anche un minimo precetto. Nel capitolo 28 del Libro del Deuteronomio viene elencata una cinquantina di maledizioni che si abbatteranno sui trasgressori delle leggi sacerdotali spacciate come volontà divina (“Ma se non obbedirai alla voce del Signore, tuo Dio, se non cercherai di eseguire tutti i suoi comandi e tutte le sue leggi che oggi io ti prescrivo, verranno su di te e ti colpiranno tutte queste maledizioni”, Dt 28,15).

L’elenco delle maledizioni divine è agghiacciante e contiene di tutto (“il Signore ti colpirà con la consunzione, con la febbre, con l’infiammazione, con l’arsura, con la siccità, con il carbonchio e con la ruggine, che ti perseguiteranno finché tu non sia perito… Il Signore ti colpirà con le ulcere d’Egitto, con bubboni, scabbia e pruriti, da cui non potrai guarire. Il Signore ti colpirà di delirio, di cecità e di pazzia… Diventerai pazzo per ciò che i tuoi occhi dovranno vedere. Il Signore ti colpirà alle ginocchia e alle cosce con un’ulcera maligna, dalla quale non potrai guarire. Ti colpirà dalla pianta dei piedi alla sommità del capo”, Dt 28,22.27-28.34-35).

Il Signore appare come un Dio crudele, spietato, non solo insensibile alle sofferenze che infligge, ma che in queste ci prende gusto: “il Signore gioirà a vostro riguardo nel farvi perire e distruggervi” (Dt 28,63).

Ma se la paura di Dio è un efficace strumento in mano ai capi religiosi per dominare e sottomettere il popolo, la paura impedisce la crescita delle persone, che restano paralizzate dall’idea di poter sbagliare e meritarsi castighi così terribili.

Chi vive nella paura di Dio non scoprirà né sperimenterà mai l’amore del Padre, il Dio che è Amore : “Nell’amore non c’è timore, al contrario, l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore” (1 Gv 4,18).
L’effetto devastante della paura di Dio sulle persone è efficacemente tratteggiato da Gesù nelle parabole dei talenti di Matteo (Mt 25,14-30) e delle monete d’oro di Luca (Lc 19,11-27). In queste parabole l’immagine di Dio viene presentata sotto la figura di un uomo facoltoso, straordinariamente generoso, che, prima di partire per un viaggio, consegna ai propri funzionari i suoi beni, donando a ognuno secondo le sue capacità, a chi cinque, a chi due e a chi un talento (colui che ha ricevuto un solo talento non ha ricevuto poco, in quanto un talento equivaleva a circa 26-36 chilogrammi di oro, e corrispondeva all'incirca a seimila denari, cioè a venti anni di salario di un operaio (Mt 18,14).



Qui i talenti non sono le doti naturali o acquisite della persona ma i doni dello Spirito.L'uomo pertanto affida ai suoi funzionari una grande fortuna fidandosi solo delle loro capacità, senza pretendere in cambio alcuna garanzia. “Colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò subito a trafficarli e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Ma colui invece che aveva ricevuto uno, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone” (Mt 25,16-18).

Chi ha ricevuto cinque talenti, li investe subito, trafficando fino ad arrivare a guadagnarne altre cinque. Il primo funzionario trasforma la somma che gli era stata consegnata, guadagnando la stessa quantità di denaro ricevuta. Così agisce anche colui che ha ricevuto due talenti.

Coloro che fanno della propria VITA un dono d’amore, impiegando tutte le proprie capacità a favore degli altri , sperimentano la verità delle parole di Gesù: darsi non significa perdere, ma guadagnare. A differenza dei primi due, il terzo funzionario invece seppellisce il talento, perché non lo ritiene suo, ma del suo padrone. Nella parabola Gesù mette in evidenza che questo terzo individuo si mostra già come un essere infelice: non crede alla generosità del padrone, non crede a se stesso come destinatario del dono, non sa che farsene con quello che ha ricevuto. Ha in mano una vera ricchezza, ha la possibilità di diventare ricco, ma non è in grado di capirlo, non sa cogliere l’occasione.

Il fatto di seppellire il talento ricorda la morte con i suoi rituali. Il dramma di questo servo è quello di non aver saputo appropriarsi della sua VITA, di ciò che essa comporta: il bene che riceve lo mette sotto terra, seppellendo con il talento anche se stesso. Quando il padrone di quei funzionari ritorna, non solo non pretende indietro quanto aveva loro donato, ma li chiama a far parte di tutti i suoi beni (“ti stabilirò su molto; entra nella gioia del tuo signore”, Mt 25,21), mostrandosi così incredibilmente ed esageratamente generoso. Entrare nella gioia del signore significa che è finita la distinzione tra dipendenti e padroni, non ci sono più servi e padroni ma ora, tutti, sono signori.

L’azione del padrone non è tesa al proprio interesse e guadagno, ma a quello dei suoi funzionari, con i quali vuole condividere tutto quel che è e che ha. Per due volte il padrone, di fronte a ciò che hanno fatto i suoi dipendenti dichiara “bene!”, gustandosi quello che è stato realizzato, come nel racconto della creazione, dove Dio ammira la sua opera (Gen 1,4. 10. 12. 18. 21.25.31).

Gesù vuole far comprendere con queste parole quali sono gli effetti dell’azione divina in chi si fida completamente del Signore. Ma c’è una sorpresa: “Venuto infine colui che aveva ricevuto un solo talento, disse: Signore, so che tu sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso” (Mt 25,24). Il terzo funzionario non si rivolge al padrone come gli altri due; egli non dice: “ecco (io) ho guadagnato cinque/due talenti…” (Mt 25,20.22), ma “so che tu…”, affermando di conoscerlo molto bene, ed è l’unico a dare una motivazione del suo operato.

La differenza di vedute tra i primi due funzionari e il terzo, spinge a domandarsi se essi stiano trattando con lo stesso padrone. Mentre i primi due confidano nella generosità del loro padrone, il terzo ne teme la spietatezza. Quest'ultimo funzionario ha un'immagine diversa e distorta del padrone, lo ritiene una persona avida e crudele, che miete e raccoglie dove non ha né seminato né sparso.

La falsa immagine che il funzionario ha del suo padrone, la paura nei suoi confronti, il timore di qualunque tipo di rischio, lo portano a seppellire quel che aveva ricevuto: per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra; ecco hai il tuo” (Mt 25,25). L'uomo prende tutte le precauzioni del caso. La sua paura è coerente con la visione che egli ha del padrone.

Questo funzionario è incapace di comprendere l’identità di un padrone che è pronto a condividere tutti i suoi averi con i suoi dipendenti. Lui pensa di conoscere il suo padrone, ma sbaglia di grosso ( è prigioniero della falsa immagine di Dio trasmessa dalla tradizione giudaica n.d.r.) , invece gli altri due dimostrano un atteggiamento diverso: costoro

credono nella generosità del loro Signore, e ciò li renderà felici. Secondo il diritto rabbinico, chi sotterrava il denaro che gli era stato affidato, non era tenuto alla restituzione o al risarcimento in caso di furto (B.M. 42a). Il terzo funzionario ha voluto cautelarsi, e potersi così difendere in caso di rimprovero: la sua VITA è regolata dalle leggi. Attenersi scrupolosamente alle regole gli dona sicurezza. Questo mesto individuo non ha perduto quanto gli era stato consegnato, e lo restituisce integro, ma senza frutti . Come la sua VITA.

L'insegnamento della parabola è che una falsa immagine di Dio può bloccare il processo di crescita della persona, che, per paura di commettere errori (peccati), non rischia, e quindi non fa fruttificare i doni ricevuti .

Questa persona vivrà sempre nel timore di sbagliare ( peccare) , per questo reprimerà le proprie pulsioni VITAli, innescando devastanti meccanismi di repressione ( la legge e i castighi) che bloccheranno in maniera definitiva il suo sviluppo e ne condizioneranno la psiche.
Chiamato a essere uomo adulto ( cioè UOMO , n.d.r.)   (Mt 19,21), colui che vive nella paura-timore di Dio rimarrà in uno stadio infantile, sempre bisognoso di un “padre” autorevole che gli comandi cosa fare e come fare, e al quale sottomettersi.

Questa obbedienza alle autorità religiose sarà la sicurezza VITAle per questo tipo di persone, che vedrà ogni proposta di libertà come un attentato alla propria tranquillità.
Mentre i primi due funzionari parlano del talento ricevuto come di una cosa propria (“mi hai consegnato…ho guadagnato”), il terzo non l’ha mai considerato come proprio; ciò è sottolineato per ben due volte dalla ripetizione del pronome (“tuo talento…”). “Ma il suo padrone gli disse: servo maligno e pigro, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso? Avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, io avrei ritirato il mio con l'interesse” (Mt 25,26-27).

Il padrone rimprovera questo suo dipendente chiamandolo “maligno e pigro”: è stata la sua paura di sbagliare a paralizzare la sua crescita. Ma nel ripetere la descrizione fornita dal funzionario, il padrone la formula in tono interrogativo, poiché egli non si riconosce in quell'immagine negativa, e nella sua domanda il padrone omette l’espressione “uomo duro”.

Il padrone rimprovera il servo perché, a maggior ragione, sapendo di avere a che fare con un padrone avido, avrebbe dovuto far fruttare il talento ricevuto, portandolo dai banchieri.

Ma il rischio, anche quando è minimo, non rientra nello schema mentale di chi ha paura di sbagliare e di poter essere poi rimproverato. La sentenza del padrone è sorprendente: “Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti”(Mt 25,28).
Perché lasciare al servo un dono che non solo non ha impiegato ma che l’ha gettato nell’angoscia? Questo individuo è “maligno e pigro” perché si è seppellito egli stesso con il talento. Ha vissuto nel terrore nonostante il dono ricevuto. Meglio togliergli quel dono che per lui è diventato così gravoso e fonte di angoscia.
Il funzionario non viene punito perché ha fatto qualcosa di male, ma perché non ha prodotto nulla . La motivazione del padrone è “perché a chiunque ha verrà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha verrà tolto anche quello che ha” (Mt 25,29).

A quanti fanno fruttare i doni ricevuti, viene aumentata la capacità di produrre in una misura che non è dovuta allo sforzo dell'uomo, ma alla generosità del Signore. Se è vero che colui che aveva ricevuto cinque talenti li ha raddoppiati con il suo impegno, è anche vero che la risposta del suo signore, che lo chiama a far parte di tutti i suoi averi, non è proporzionata all'impegno del funzionario, ma è dovuta alla generosità del padrone.

Dio regala VITA a chi produce VITA, ma non può che constatare l’assenza di VITA in chi non si è donato agli altri : “E il servo inutile gettatelo nelle tenebre esteriori; là sarà il pianto e lo stridore di denti” (Mt 25,30). È un servo inutile, senza valore: rimane senza dono e senza gioia. Vivendo nella paura è rimasto chiuso nelle proprie tenebre, per questo ora viene gettato nelle tenebre esterne, dove può manifestare i propri sentimenti di dolore (pianto) e rabbia (stridore dei denti), immagini con le quali si indica il fallimento della propria VITA. Incapace di cogliere l’offerta di ricchezza e di gioia, non gli rimane che raccogliere la collera e la pena.

L'evangelista Luca, nella stessa parabola, inserisce un elemento particolare: l'uomo ha nascosto quanto aveva ricevuto in un “fazzoletto”. Il termine greco tradotto con fazzoletto, è soudarion (sudario), che nei vangeli appare solo in questa parabola di Luca e dall'evangelista Giovanni (Gv 11,44; 20,7) sempre in connessione con dei cadaveri. Il sudario è infatti il panno con cui gli ebrei velavano il volto del defunto, per occultarne la decomposizione.

La denuncia dell'evangelista Luca è drammatica: chi non dirige la sua VITA verso gli altri è già in una condizione di morte, anche se all'esterno può apparire candido e immacolato , come il sudario che vela il volto del defunto, telo che serve solo a coprire una VITA già putrefatta.

La VITA, per essere tale, richiede un dinamismo di crescita e trasformazione continua , che viene alimentato dall’aprirsi alle nuove situazioni e dall’ offrire nuove risposte ai bisogni degli uomini .
Una persona che pensi solo a se stessa, e non agli altri, che veda solo i suoi bisogni e le sue necessità, senza accorgersi dei bisogni e delle necessità altrui, vive già in una condizione di morte. Gesù l’ha espresso più che chiaramente: “Chi avrà tenuto per sé la propria VITA , la perderà, e chi avrà perduto la propria VITA per causa mia, la troverà” (Mt 10,39; Lc 17,33).

Questa è la tragedia della religione : invece di favorire la crescita delle persone la limita, invece di incanalare le energie degli uomini le soffoca e, inculcando il senso di colpa e di indegnità, non permette agli uomini di vivere la VITA nella sua pienezza. E questa è anche la buona notizia di Gesù che Cristo è venuto a offrire agli uomini e per la quale ha pagato con la sua VITA: Dio è amore, e nessuna persona al mondo, qualunque sia la sua condizione o condotta, può sentirsi esclusa da questo amore o rifiutata dal Padre, come ben formulerà Pietro (“Dio mi ha mostrato che non si deve chiamare profano o impuro nessun uomo”, At 10,28) e come magistralmente sarà espresso da Paolo nella Lettera ai Romani:

“Che diremo dunque di queste cose? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi! Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno,siamo considerati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né VITA, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,31-39). »
“La religione è l’oppio dei popoli”. LE BEATITUDINI VIA PER LA PACE di P. Alberto Maggi OSM 21 Gennaio 2011 trascrizione non rivista dall'autore www.studibiblici.it

Con questa perentoria affermazione, Karl Marx denunciava il pericolo delle religioni. Non aveva torto Marx. Se una religione viene usata dai ricchi e dai potenti per mantenere il dominio su una massa di poveri e di oppressi, è veramente un oppio, cioè un narcotico che neutralizza le energie e le forze VITAli del popolo. Sul banco degli accusati, in prima fila tra le religioni, c’era secondo Marx, proprio il cristianesimo, e in particolare il messaggio di Gesù conosciuto come “beatitudini”.

Una religione nella quale si proclamavano beati i poveri, perché proprio a causa della loro indigenza avevano il paradiso assicurato, era indubbiamente una religione alienante. Come si poteva dire agli afflitti, agli affamati, che erano beati? E perché erano beati? Perché dopo il calvario della loro esistenza, come “premio”, sarebbero stati portati in prima fila in paradiso. Un paradiso, però, che non solo non era precluso al ricco, anzi, questi si assicurava l’aldilà lasciando generose offerte per la celebrazione di messe perpetue dopo la sua morte. E i poveri si sentivano beffati su questa terra e in quella futura.

La predicazione di questo messaggio non poteva che essere fallimentare. Di fatto, i poveri, gli afflitti e gli affamati, alla prima occasione che la VITA offriva loro di uscire dalla loro indigenza e sofferenza non ci pensavano due volte, lasciando povertà e beatitudine senza alcun rimpianto. D’altro canto, quanti non si trovavano in queste situazioni di miseria e di oppressione si guardavano bene dall’entrarci, decretando così il fallimento del messaggio di Gesù.

A causa di ciò le beatitudini sono le grandi sconosciute della dottrina cristiana. Non si conoscono o si conoscono male.

Tutti ricordano indubbiamente la prima beatitudine, forse perché la più antipatica (“Beati i poveri…”), per il resto è come se Gesù avesse proclamato beati i disgraziati della società e beatificato quelle condizioni di sofferenza e di dolore dalle quali ogni persona sana di mente si guarda bene dall’entrare e dove, se malauguratamente ci si trova, cerca di fare di tutto per uscirne. Realmente Gesù ha proclamato beati i poveri? E se l’ha fatto, perché i poveri sono beati? Perché vanno poi in paradiso, in quell’aldilà nel quale anche i ricchi sono ammessi? La risposta si trova nei vangeli.
E la sorpresa è che mai Gesù ha proclamato beati i poveri, quelli che la società affama ed opprime. Gesù non è venuto a santificare la povertà, ma ad eliminarla. Cristo non è venuto per addolcire con la visione beatifica la tragedia della VITA quotidiana dei poveri, ma a strappare i miseri dalla condizione di indigenza e di dolore.

Le beatitudini nei vangeli si trovano in Matteo e in Luca (Mt 5,110; Lc 6,2023). Le forme sono diverse, il messaggio è identico. Mentre in Matteo l’invito è a quanti vogliono farsi poveri (Beati i poveri di spirito), in Luca Gesù si rivolge ai discepoli che hanno già fatto questa scelta (Beati voi poveri, Lc 6,20) e hanno lasciato tutto per seguirlo (Lc 5,11).

Gesù, il Figlio di Dio, vuole portare a compimento la volontà del Padre, la cui presenza in seno al popolo sarebbe stata garantita dal fatto che in esso nessuno sarebbe stato bisognoso (“Non vi sarà alcun bisognoso in mezzo a voi”, Dt 15,4). È quel che comprese la primitiva comunità cristiana che “con grande forza dava testimonianza della risurrezione del Signore Gesù” (At 4,33).
Come poteva questa comunità testimoniare la presenza del Risorto al suo interno? Con proclami dottrinali? Con sontuose liturgie?

No, con la loro VITA.

La prova del Cristo risuscitato era infatti a portata di mano, tutti la potevano vedere: Nessuno infatti tra loro era bisognoso …” (At 4,34).
La certezza che Cristo è presente in una comunità è che all’interno della stessa non esistono disuguaglianze, ricchi e poveri, chi comanda e chi serve, ma tutti sono e si comportano da fratelli, responsabili gli uni della felicità e del benessere dell’altro. Per questo, nel proclamare le beatitudini, Gesù si riallaccia all’ultimo dei comandamenti di Mosè, “Non desidererai alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo” (Es 20,17; Dt 5,21), e gli dona continuità trasformandolo in un invito positivo: desidera che il tuo prossimo abbia le tue stesse cose.

Lc 14, 12Disse poi a colui che l'aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non inVITAre i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch'essi e tu abbia il contraccambio. 13Al contrario, quando offri un banchetto, invitaA poveri, storpi, zoppi, ciechi; 14e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».

Questo è il significato della prima beatitudine: un invito a prendersi cura del bene e del benessere dell’umanità (“Beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli”, Mt 5,3). La decisione volontaria di entrare nella condizione di povertà è presentata dall'evangelista come la beatitudine principale e condizione per l'esistenza di tutte le altre. Le sette beatitudini che seguono non sono che la presentazione delle situazioni e delle conseguenze positive che la scelta per la povertà comporta nella società (Mt 5,46) e nella comunità (Mt 5,710).
Gesù proclama beati, cioè pienamente felici, non quelli che la società ha reso poveri, ma quanti volontariamente entrano in questa condizione per alleviare e eliminare le cause della povertà.

L’invito di Gesù è infatti rivolto ai poveri “di spirito”, a quelli che liberamente e volontariamente, per amore, per lo spirito che li anima, entrano nella condizione di povertà ( a favore dei poveri n.d.r.) .
Mt 25,40 «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli ( i discepoli, BAMBINI di Dio) , l'avete fatto a me».
Mt 25,45 «In verità io vi dico:
tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l'avete fatto a me».
Quella di Gesù non è una richiesta di spogliarsi di quel che si ha, ma di rivestire chi non ha nulla , scoprendo così che la felicità non consiste nell’avere, ma nel dare (At 20,35). La beatitudine è un invito a trasformare radicalmente la società e permettere così l’avvento del Regno di Dio. Per questo le beatitudini sono precedute dall’invito alla conversione per consentire la realizzazione del regno di Dio (Mt 4,17). In una società dominata dai tre verbi maledetti avere, salire, comandare, che causano negli uomini la rivalità, l’odio e l’ingiustizia.
Gesù propone come alternativa il Regno di Dio, l’ambito dove, anziché la cupidigia dell’avere sempre di più, vi sia il condividere, dove al posto del salire al di sopra degli altri vi sia lo scendere a fianco degli ultimi, e dove anziché la brama di comandare vi sia la gioia del servire. A coloro che fanno la scelta libera e volontaria della povertà viene assicurato il “regno dei cieli” (da non confondere con" un" regno nei cieli ).

Matteo è l’unico evangelista a usare l’espressione “regno dei cieli”, al posto di regno di Dio, secondo la tendenza tipica degli scribi di usare dei sostituti per evitare di pronunciare o scrivere il Nome divino (haShem).
Il “Regno dei cieli” non proietta la promessa di Gesù in un futuro lontano (l’aldilà), ma nella possibilità, già presente, di avere Dio come Re, ovvero un Padre che si prende cura dei suoi.

Questo regno diventa realtà nel momento in cui gli uomini entrano nella condizione di poveri: a chi si fa responsabile del benessere del proprio fratello.

Gesù garantisce che il Padre stesso si farà carico della sua felicità (Mt 6,33; 25,34-40). ( la sua salvezza n.d.r.)
( Beati i poveri perchè di essi è il Regno di Dio) Con questa beatitudine Gesù non solo non idealizza la povertà, ma chiede ai discepoli una scelta coraggiosa che consenta di eliminare le cause che la provocano . Per questo le beatitudini non solo non sono l’oppio dei popoli, ma sono l’adrenalina che stimola energie VITAli all’umanità, quel che permetterà agli oppressi, ai diseredati, agli affamati di vedere finalmente la fine della loro condizione di infelicità.
Mentre l’osservanza dei comandamenti garantiva lunga vita qui su questa terra, l’accoglienza delle beatitudini garantisce qui già da questa esistenza una VITA di una qualità che è indistruttibile. Ecco perché Gesù quando parla della VITA eterna non ne parla mai alla maniera giudaica.
Nel mondo giudaico la VITA eterna era un premio futuro da conseguire per la buona condotta nel presente. Invece Gesù ne parla sempre al presente.
La VITA eterna non è un premio nel futuro, ma una possibilità da sperimentare ora .

Chi accoglie il messaggio di Gesù e lo traduce in pratica sentirà liberare dentro di lui certe energie, certe capacità, certe Forze VITAli d’Amore che lo portano già in una dimensione ( di VITA) che è già quella definitiva. ( Il Regno di Dio )
Religione e obbedienzaXXI INCONTRO BIBLICO tenuto da Alberto Maggi Assisi, settembre 2013 - Servi di Maria - Montefano – Mc- trascrizioni non riviste dall'autore.
« Figli di Dio non si nasce, ma ci si diventa.» Come? Quando si accoglie nella esistenza Gesù e il suo messaggio e si cambia radicalmente la direzione del cammino, non si vive più per se stessi ma si vive per gli altri.
Nell’UOMO fiorisce la VITA divina: si diventa figli di Dio, ecco perché l’uomo che era stato considerato maledetto da Dio una volta che ha incontrato Gesù: dice “Io Sono” , rivendica la condizione divina.

Ecco perché non lo riconoscono, perché la religione ha il terrore della crescita delle persone, la religione può dominare le persone fintanto che queste si mantengono in una condizione infantile.
Cosa significa condizione infantile? Avere sempre bisogno di una autorità che ti dice come ti devi comportare, cos’è bene e cos’è male e molte persone accettano questo, lo vediamo dalle prolificazioni di tanti gruppi che ci sono nella Chiesa, dove le persone barattano la propria libertà con la sicurezza che da la religione e lo fanno attraverso la forma più perversa e più nociva che sia mai apparsa nell’umanità, nell’obbedienza, la cosa più devastante che possa accadere nell’umanità.

Ricordiamo sempre che i più grandi crimini perpetrati lungo la storia dell’umanità sono stati sempre perpetrati non da rivoluzionari, da persone disobbedienti ma da persone che hanno obbedito: chi obbedisce non si chiede quali sono le conseguenze delle sue azioni. Sappiamo tutti la storia ci insegna che i grandi processi dei grandi criminali di guerra, come si scusano? Ho obbedito agli ordini; ma ti sei chiesto delle conseguenze dell’obbedienza a questi ordini? Non era nel suo compito.

Quindi
le persone anche nella VITA religiosa obbediscono barattando la propria libertà con la sicurezza; il fascino della religione è questo, la sicurezza che la religione dà.

Perché?
Dal momento che entri a far parte di un gruppo religioso, di una istituzione religiosa, tu non sei più libero, però sei pienamente sicuro, perché avrai sempre una autorità che di dirà; fai questo, non fare quest’altro; questo è bene, questo è male, si è vero rimani in una condizione infantile, però sei sempre sicuro, c’è sempre qualcuno che ti dice cosa devi fare, l’importante che tu obbedisca.
Con Gesù è la fine dell’obbedienza : Gesù non chiede obbedienza a sé, non chiede obbedienza a Dio, ma chiede assomiglianza e la  somiglianza a Gesù ha un effetto devastante per ogni istituzione religiosa, perché rende le persone libere. Nella religione non si temono i contestatori, si temono le persone libere, perché saranno libere come dirà Gesù in questo vangelo libere come il vento che non sai da dove viene ne dove va, le persone libere sono imprevedibili, sono creative, allora c’è da scegliere, o la sicurezza della religione, rinunciando alla nostra libertà o alla libertà che ci da Gesù rinunciando ad una sicurezza che non sia nelle nostre profonde convinzioni.

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4 - GESU' E L'ISTITUZIONE RELIGIOSA GIUDAICA DI QUEL TEMPO   

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