Corso di Religione

EBRAISMO

 
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LO SHEMAH

Lo Shema'Lo shemah L'ebraismo nella vita quotidiana , Ernest Gugenheim -Giuntina

IO SONO IL SIGNORE VOSTRO D-o.
(Num, XV, 37-41) .
Lo Shemà (Ascolta) non è una vera e propria preghiera, ma piuttosto una professione di fede. Viene recitato due volte al giorno, nella preghiera del mattino e in quella della sera, e, privatamente, prima di coricarsi.
Il primo brano (Deut, VI, 4-9) afferma :
- l'unità di D-o e l'impegno ad amarlo totalmente
- l'obbligo di ripetere lo Shemà due volte al giorno e di insegnare la Torà ai propri figli
- il precetto dei Tefillin
- il precetto della Mezuzà Il secondo brano (Deut, XI, 13-21)
affronta:
- il problema della ricompensa e della punizione in rapporto all'osservanza o alla trasgressione del precetto Il terzo brano (Num, XV, 37-41)
impone:
- l'obbligo del zizìt ( frange sui 4 angoli del tallit , lo scialle che gli uomini pongono sulle spalle o sul capo durante la preghiera in sinagoga.)
- il ricordo dell'uscita dall'Egitto

Nella preghiera pubblica la recita dello Shemà è preceduta e seguita da particolari benedizioni. Le parole dello Shemà sono 245. Ripetendone l'ultima espressione diventano 248, tante quante sono, per tradizione, le membra del corpo umano, a ricordare che bisogna aderire alle parole dello Shemà con tutta la propria persona.
"
"Spiega Rabbì Israel Salanter che quando l’ebreo urla “Shemà Israel” proclama Iddio Re sui quattro angoli della Terra e sui sette Cieli.
ASCOLTA, ISRAELE (SHEMÀ ISRAEL) IL SIGNORE È NOSTRO D-o, IL SIGNORE È UNO. (a voce bassa) : Benedetto il Nome glorioso del suo Regno in eterno e per sempre. Amerai il Signore tuo D-o con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua forza. Queste parole, che ti ordino oggi, saranno sul tuo cuore: le ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando siederai in casa tua e quando camminerai per strada, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te le legherai come segno sulla mano e ti saranno come pendagli tra gli occhi; le scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte.
(Deut, VI, 4-9)
Se ascoltando obbedirete ai miei precetti, che vi ordino oggi, di amare il Signore vostro D-o e di servirlo con tutto il vostro cuore e con tutta la vostra anima, Io darò la pioggia alla vostra terra a suo tempo, la pioggia autunnale e la pioggia primaverile, e cosi potrai raccogliere il tuo grano, il tuo vino e il tuo olio. Ti darò l’erba nei campi per il tuo bestiame: mangerai e sarai saziato. Ma state in guardia che il vostro cuore non sia sedotto, e non vi allontaniate per servire altri dei e prostrarvi ad essi. Perché l’ira del Signore si accenderebbe contro di voi; chiuderà il cielo e non vi sarà pioggia, la terra non darà i suoi prodotti e voi sparirete presto dalla terra buona che il Signore vi dà.
Porrete dunque queste mie parole sul vostro cuore e sulla vostra anima, ve le legherete come segno sulla mano e vi saranno come pendagli tra gli occhi.
Le frange -zizit Il Signore disse a Mose: Parla ai figli di Israele e di’ loro che si facciano delle frange (zizit) agli angoli delle loro vesti ( tallit) per (tutte) le loro generazioni, e mettano nella frangia di ogni angolo un filo di lana azzurra. Questo sarà per voi della frangia: guardandola vi ricorderete di tutti i precetti del Signore e li praticherete. Non correrete dietro ai vostri cuori e dietro ai vostri occhi, seguendo i quali vi prostituite; ma ricorderete e praticherete tutti i miei precetti, e sarete santi per il vostro D-o. Io sono il Signore vostro D-o, che vi ho fatti uscire dalla terra di Egitto per essere il vostro D-o.

 SHEMA’: ASCOLTO ED IMPEGNOdi Franco Segre www.aectorino.org

vStruttura, storia, liturgia E’ pressoché impossibile stabilire esattamente la storia della lettura dello Shemà dalle sue origini e le modalità con cui è stata introdotta nel culto individuale ed in quello pubblico.

Sicuramente risale a tempi molto antichi: si può immaginare che inizialmente la lettura dei tre brani che lo compongono [i primi due tratti da Deut. (6, 4-9 e 11, 13-21) e il terzo da Num. (15, 37-41)] facesse parte solo della prassi di leggere tutta la Torà in pubblico in un ciclo periodico, prima triennale e poi annuale, e poi, in varie fasi temporali che cercherò di esaminare, sia diventata una norma stabilita e dettagliata della tradizione rabbinica.

Le parole stesse dello Shema’, secondo la tradizione dei maestri (alla quale dobbiamo riferirci in mancanza di altre fonti), sono state interpretate come norma scritta per la lettura, da farsi per due finalità ben precise,
- per custodire intimamente nel cuore di ogni ebreo “queste parole”
- e per insegnarle ai figli in modo che diventino parte indelebile del loro credo, della loro morale e della loro cultura (in quanto fede e norma e si fondono da sempre nella tradizione dello Shemà). "

Di quali parole si tratta?

Solo il primo verso (che contiene il dovere di ascoltare e di condividere la fede nel D. unico), o i primi due versi comprendendo anche il dovere di amare D. con tutte le nostre facoltà? Oppure, secondo un’altra possibilità “queste parole” si riferivano a tutta la Torà, e, in questo caso, la lettura di tutto il primo brano sarebbe stata istituita come dovere quotidiano di ricordarsi e conservare nel proprio cuore l’intera legge?

Sembra logico supporre che queste due opinioni non si contraddicano, ma appartengano a due fasi temporali distinte, di cui la prima, la più vecchia, prevedeva solo il primo o i primi due versi, mentre la seconda comprendeva tutto il primo brano.

Il primo verso con ogni probabilità ebbe fin dai tempi più antichi una sua autonomia, non solo quale fondamentale professione di fede in un D. unico immateriale, ma soprattutto come volontaria differenziazione, per Israele, dalle credenze e dai culti dedicati alle molteplicità di idoli e di immagini.

E’ facile supporre che la proclamazione di questa unità, espressa in sole 6 parole, quindi facile da ricordare e da recitare, ricorresse nelle varie manifestazioni della vita degli ebrei, nei momenti di gioia e di dolore, di pericolo e di vittoria, negli eventi lieti e in quelli tristi, dalla nascita alla morte.

Doveva essere nella bocca dei re, dei profeti, dei sacerdoti nel corso dei loro riti sacrificali. Come ha affermato Alfonso Pacifici all’inizio del suo volume “Discorsi sullo Shemà”:

Queste parole, col bacio della mamma, hanno cullato il sonno dei bimbi d’Israele sui loro lettini, ogni sera da migliaia di anni; queste parole mormorate, stentate e inintelligibili, dalle labbra di tutti i morenti d’Israele, sono state come il loro saluto a quello sconosciuto di là verso cui già si fissavano i loro occhi vitrei; queste parole, rotte dai singhiozzi e dal pianto, sono state il saluto ultimo dei figlioli all’anima cara dei loro genitori nel momento supremo del suo staccarsi di qua – da migliaia di anni.


In questo verso due lettere sono scritte a caratteri più grandi sul Sefer Torà: la ain, lettera finale della prima parola, e la daled, lettera finale dell’ultima parola: lette insieme formano la parola ed ( testimone). Ciò richiama subito, secondo l’interpretazione tradizionale, la vocazione per il popolo d’Israele di essere testimone del D. unico tra i popoli.

Il messaggio è preannunciato con l’imperativo “Shemà” . “Ascolta”. Di fronte all’apparente immediatezza e facilità di comprensione di questa parola, non è altrettanto facile e immediato percepire in modo univoco la valenza di questo ascolto, il significato vasto e profondo di questo richiamo.

Ha scritto in proposito il Rabb. Riccardo Pacifici (in “Discorsi sulla Torà”):

“…Questa prima parola, forse la più profonda di tutte, è forse la più incompresa: Shemà, ascolta! Tu ascolta; ma chi veramente ascolta, non la ripetizione mnemonica di queste parole, ma il senso che ne promuove? ….Chi ascolta ciò che D. dice, ciò che l’anima d’Israele dice, ciò che a ciascun animo si rivela e si annuncia con il linguaggio impercettibile attraverso l’opera di ognuno?

E’ detto: “Ascolta”. Non : “Credi”, perché sarebbe oltremodo pericolosa una credenza non preceduta dall’ascolto, e dal processo intellettuale di riflessione e di meditazione che si innesca con l’ascolto.

E’ detto “Ascolta” e non : “Vedi”, perché l’immagine da sola, anche se rievoca esperienze vissute, può facilmente degenerare in forme di venerazione lontane, direi opposte rispetto al significato del messaggio qui proclamato.

Ascoltare vuol dire come prima cosa voler ascoltare: implica l’atteggiamento di chi si pone nelle condizioni d’animo atte ricevere il messaggio, di chi percepisce, riflette, approfondisce, di chi vuol trovare la propria fede, ma anche di chi individua i propri dubbi e cerca di superarli, di chi intende sforzarsi di cogliere e penetrare il fine ultimo del messaggio.

In uno scritto di Henri Cohen-Solal (psicologo e educatore franco-israeliano) leggo in proposito queste parole:


“…Se vogliamo risolvere l’equazione di un D. che si rivolge a un popolo per rivolgersi a tutti i popoli, se fatichiamo a restituire i percorsi del dialogo tra l’istante della ricezione e quello della trasmissione, noi siamo destinati in permanenza ad affrontare la pena dell’altro. «Ascolta» è qui l’invito a tentare, nella nostra storia, di rinvigorire senza sosta il cammino attraverso il quale, con l’ascolto reciproco gli uni degli altri, si giungerà finalmente al termine del timore, della paura, della chiusura e del mutismo”

Passo all’esame strutturale del messaggio vero e proprio, che inizia con il nome di D.: fin dai tempi antichi doveva essere diffuso l’assoluto rispetto del terzo comandamento, che nel richiedere di non pronunciarlo invano, imponeva di omettere la corretta pronuncia del Suo nome tetragrammato, quella pronuncia che era consentita al solo sommo sacerdote, nel giorno di Kippur, (e oggi noi non sappiamo neppure quale potesse essere la vera pronuncia del nome divino, ed al suo posto pronunciamo impropriamente l’espressione “Signore” o “mio Signore”).

Possiamo quindi pensare che siano sempre esistiti due atteggiamenti in un certo senso contrapposti: da un lato l’adesione, sia quella spontanea che quella regolamentata dalla norma (e vedremo fra poco come), come atto di volontà, di fede e di distinzione, dall’altro il timore che l’assoluta verità avvertita attraverso questa proclamazione potesse degenerare nell’abuso e contaminarsi attraverso l’impiego improprio, limitato o errato, della lingua e del pensiero umano.

Ascoltare significa anche cogliere e tentare di superare i rischi di questa antinomia, che da un lato può condurre a rappresentazioni mentali (e spesso anche fisiche) inadeguate della Divinità, che possono giungere fino all’idolatria, dall’altro può portare a forme di miscredenza o di ateismo.

Il fatto che nella lingua ebraica si omette il verbo essere fa sì che le parole successive siano state tradotte in più modi: il primo, quello più comune “…il S. è il nostro D., il S. è uno” caratterizza due affermazioni distinte, cioè la qualità di D. (che si distingue da ogni altra qualità, e che per l’uomo può essere intuibile, o descrivibile attraverso i Suoi attributi) e la Sua unicità; il secondo “…il S. nostro D. è il S. unico” non mette in dubbio la scelta di quale e come sia “il nostro D.” ma focalizza l’attenzione sulla sua unicità; il terzo modo “…il S. è il nostro D., il S. unico”, al contrario, rinforza la nostra volontà di scelta tra i tanti dei delle varie religioni, quello che si proclama come unico.

Sono piccole sfumature che non si contraddicono, ma anzi si integrano vicendevolmente. Così, per esempio, l’intende Maimonide, che, nel suo “Libro dei precetti” fa derivare da queste parole un’unica mitzvà: “…è il comando che abbiamo ricevuto di credere nell’unità di D., e cioè: che il creatore di tutto e la prima causa sono uno solo….; il S. non ci ha fatto uscire dalla casa di schiavi e non ha fatto con noi quello che ha fatto mettendo in atto bontà e beneficio, altro che a patto che crediamo nella Sua unità, secondo quanto siamo obbligati…”

Una seconda mitzvà compare nel verso immediatamente successivo “E amerai il S. tuo D. …” , che è considerato (anche questo fin dai primi tempi) non solo quale completamento della prima affermazione, ma soprattutto come essenziale per la sua stessa comprensione: non si può amare D. se non si crede in Lui, ma al tempo stesso la fede in Lui e nella sua unicità richiede che lo si ami con tutte le nostre energie.

E’ ancora Maimonide che aiuta a capire questo non facile concetto: “…è il comando che abbiamo ricevuto di amare Colui che va esaltato, ed è che poniamo mente e consideriamo i Suoi precetti ed i Suoi comandi e le Sue azioni, affinché Lo comprendiamo ed arriviamo alla massima gioia nella comprensione di Lui – e questo è l’amore che ci viene comandato…”

Nella concezione etico-monoteistica di questi due versi, l’amore verso D. si attua dunque con l’esercizio delle mitzvoth e queste sono il mezzo per arrivare alla comprensione di D. e della Sua unicità. Arrivarci direttamente, con speculazioni astratte o filosofiche, può essere ingannevole, mistificante, senz’altro pericoloso. Riporto ancora, a questo proposito, le molto belle parole (a mio avviso) di A. Pacifici:

“….è Uno. Vien da tremare a avvicinarsi a questo argomento; perché è più da viverlo che da parlarne. E forse sarebbe degno di parlarne, soltanto chi davvero potesse dire, in coscienza, di aver fatto tutto il suo possibile, per viverlo, prima di osare di mettersi a parlarne….L’Uno. Anche questo, come gli altri attributi del Supremo, noi non possiamo intuire che di riflesso, negativamente da quel che vorremmo e non sappiamo realizzare in noi. L’unità che sarebbe la necessità prima e più immediata della nostra esistenza, quella per cui e di cui noi viviamo, ci sfugge continuamente, per nostra pochezza. Noi abbiamo da D. tutte le energie per tendere ad attuare l’unità in noi, e si può dire che disperdiamo ogni giorno il meglio delle nostre energie, male illuminate e mal dirette, a distruggere l’unità e ad allontanarla da noi. Tutto il dramma dell’esistenza umana si potrebbe chiamare la lotta del molteplice contro l’uno, la lotta per l’uno contro le seduzioni del molteplice – lotta incessante, senza possibilità di vittoria definitiva (perché chi si crede certo della vittoria e disarma, è proprio quello che sta per precipitare più in basso), e senza, nemmeno, possibilità di tregue e, tanto meno, di resa a discrezione nelle braccia tentacolari del molteplice; un attimo dopo aver creduto di poter suggellare in pace, in abbandono oblioso il patto di resa, la spinta verso l’unità riassale, tormentosa, l’anima umana senza pace”

L’uso di recitare tutto il primo brano e non solo il primo verso sembra provato dall’esistenza di una fonte, il papiro di Nash di periodo asmoneo (II secolo a. e. v.), il più vecchio testo biblico noto prima della scoperta dei rotoli del mar Morto, che riporta appunto tutto il primo brano, e non ancora gli altri due, insieme ai dieci comandamenti.

E’ plausibile pensare che, in questa fase temporale, fosse considerato come un testo a se stante, di cui i primi due versi costituiscono il contenuto ideologico (fede, unità, amore) ed i successivi le modalità di estrinsecazione di questa fede, attraverso l’attuazione di precise norme: l’insegnamento quotidiano ai figli nelle varie attività della giornata (in casa, per la strada, alzandosi e coricandosi); l’impiego di segni particolari atti a richiamarne la memoria (i tefilin da legarsi al braccio e da porsi sulla fronte, la mezuzà da affiggere sulle porte di casa e delle città). Le più tarde discussioni talmudiche provano comunque che il primo verso mantenne sempre un carattere di preminenza, per la concentrazione e la disposizione d’animo che la sua lettura richiede e prescrive.

E’ in questa fase che, probabilmente, la recita stessa divenne una norma, suggerita e motivata dalle parole “…(e parlerai di esse) coricandoti ed alzandoti”: nasceva così la regola della recitazione due volte al giorno, al mattino e alla sera. Questa regola venne introdotta anche e soprattutto nell’ambito dei due sacrifici quotidiani presso il Tempio di Gerusalemme. Tra il primo verso (“Shemà Israel…”) e i successivi si introdusse più tardi, ma forse ancor prima del periodo farisaico, la frase “Benedetto il nome glorioso del Suo regno per sempre”, da recitarsi normalmente sottovoce.

Questa usanza, divenuta anch’essa una norma, viene fatta risalire dai maestri al patriarca Giacobbe, quando, prima di morire, si accertò che i suoi insegnamenti fossero stati recepiti da tutti i suoi figli; oppure, secondo un altro midrash, a Mosé che la imparò dalle schiere degli angeli che la pronunciavano ad alta voce (gli uomini, che non sono puri come gli angeli la recitano di solito a bassa voce, tranne nel giorno di Kippur, quando si suppone che il loro livello di elevazione spirituale sia maggiore).

Indubbiamente quest’inserimento è stato posto per dare maggiore enfasi al primo verso, non solo per contrassegnare una separazione con i versi seguenti, ma anche per creare un momento di meditazione dopo aver letto e pronunciato la prima frase: di fronte all’immensità dell’Uno, - perché non più di Uno - , dell’Uno – perché Sovrano del tutto - , noi ci fermiamo un momento per non infrangere questa Unità, in silenziosa benedizione del Suo regno.

L’aggiunta degli altri brani risale probabilmente al tardo periodo asmoneo (I secolo a.e.v.): si può pensare che, in un periodo di crisi, di disgregamento, di contaminazione con altre culture, di indebolimento politico (fino alla perdita d’indipendenza), fosse sorto il bisogno di accompagnare alla professione di fede del primo brano altri avvertimenti e segnali importanti per il mantenimento dell’identità e la conservazione dell’unità di pensiero e di azione.

Nel secondo brano troviamo infatti un monito all’osservanza dei precetti, correlata al preciso rapporto di causa effetto tra il comportamento individuale e collettivo e le conseguenze che ne derivano, di prosperità ed abbondanza in caso di fedeltà, di carestia e disgrazia in caso di abbandono del patto e di contaminazioni con “altri dei”, con i culti idolatrici circostanti, fino a prevedere, come terribile profezia, la cacciata del popolo dalla terra, da quella terra che non deve essere considerata come un possesso particolare per un diritto inalienabile, bensì una concessione condizionata strettamente al comportamento.

Peraltro, la ripresa nel secondo brano dei temi del primo (“E le insegnerete ai vostri figli ….”) può stare a significare, che, anche dopo le eventuali terribili punizioni previste, dovrà pur esserci una fase di ritorno (non solo spirituale, ma anche materiale), che consentirà di ricuperare il benessere e il prolungamento dei giorni sulla terra dei padri.

Per il terzo brano, possiamo riferirci a quanto afferma in proposito il Talmud (Berachot, 12 b), che, non ostante sia una fonte tarda, riferisce probabilmente con correttezza, come motivazioni dell’aggiunta, il richiamo alle norme che rischiavano di essere disattese: il precetto dello tzitzith (la norma di indossare la frangia agli angoli dei vestiti), il giogo dei precetti (presi nel loro complesso: “…lo vedrete e vi ricorderete di tutti i precetti del S….”), il pensiero degli eretici (da non imitare:“…e non devierete dietro il vostro cuore…” – come il depravato che [salmo 14] segue il suo cuore per dire «non c’è D.»), il pensiero ingannevole (che fa vedere corretta una cosa sbagliata: “…e dietro i vostri occhi…” – come Sansone [Giudici, 14] ingannato dai suoi occhi), il pensiero idolatra (“…dietro ai quali vi lasciate traviare…” – come il popolo d’Israele traviato dagli idoli [Giudici, 8]), l’uscita dall’Egitto (come obbligo del ricordo come premessa fondamentale a tutta la Torà).

L’osservanza, come fedeltà al patto e come impegno a non lasciarsi sviare dalle seduzioni dei falsi dei, conferisce quello stato di santità (“…e sarete santi al vostro D….”) al quale, secondo il testo, ogni ebreo deve tendere. La lettura dello Shemà nella sua completezza, per quanto riferisce la Mishnà, è data come un fatto acquisito per i maestri del periodo tannaita. E’ rilevante il fatto che la Mishnà inizi, nel suo primo trattato Berachot, con la domanda “Da quando in poi si recita lo Shemà di sera?”, dando per scontato che tutti sappiano da che cosa è composto, e che deve essere recitato due volte al giorno, al mattino e alla sera, in osservanza delle parole “…coricandoti ed alzandoti”.

La recitazione serale deve essere effettuata tra il calare della notte (il tramonto) fino a mezzanotte, con possibilità di estensione fino all’alba; quella mattutina deve avvenire tra i primi chiarori dell’alba (“…da quando 5 si può distinguere tra l’azzurro e il bianco…”) fino ad un quarto della giornata, considerata come periodo compreso tra l’alba e il tramonto.

Le due note scuole di Illel e Shamaj, sempre in rivalità tra loro, nel discutere sui tempi di questa lettura, si appellavano ad una diversa interpretazione del testo (Berachot, 1, 3): “La scuola di Shamaj insegna: Ognuno deve recitare di sera mentre giace e di mattina mentre è in piedi, perché dice il testo: «…nel tuo stare coricato e nel tuo stare alzato». La scuola di Illel invece insegna: Ognuno recita a modo suo perché dice anche «…nel tuo camminare per la via». Se è così, perché fu detto: «…nel tuo coricarti e nel tuo alzarti»? Perché (ciò significa) al tempo i cui è uso che gli uomini si corichino e si alzino…”

La presenza di queste discussioni e di altre dello stesso genere è una prova del fatto che la definizione della norma precisa risale proprio al periodo di vita di tali scuole (primo secolo dell’e.v.). La stessa Mishnà fornisce anche una spiegazione sull’ordine di lettura dei tre brani (Berachot, 2, 2): “…Perché lo squarcio di «Shemà…» (primo brano) precede quello di «Veaià im shamoa…» (secondo brano)? Affinché prima si accetti il giogo del regno celeste, ed appena dopo quello delle leggi. Perché «Veaià im shamoa…» sta prima di «Vajomer…» (terzo brano)? Perché «Veaià im shamoa…» ha valore tanto di giorno che di notte, mentre «Vajomer…» non si esercita che di giorno” [infatti le frange del taled sono prescritte per il giorno, in quanto il testo dice «…e lo vedrete…»]



Può darsi quindi che sia esistita una fase temporale in cui il terzo brano venisse letto solo di giorno, e non di sera. Contemporaneamente alla regola di leggere tutti e tre i brani, si costituì anche l’uso, divenuto presto anch’esso regola, di far precedere e seguire lo Shemà da specifici testi di benedizioni preparatorie e conclusive di redazione molto antica (sono attribuiti dai maestri ai tempi delle Grande Assemblea - IV o III secolo a.e.v.): delle due che precedono lo Shemà, la prima (“…jotzer or…”) tratta dell’evoluzione della natura la cui nascita è iniziata dalla creazione della luce e dell’oscurità, la seconda (“…Avat olam…” o “Aavà rabbà…”) è un omaggio al S. che ci ha dato con amore la Sua legge; la benedizione che segue lo Shemà è dedicata alla redenzione, di cui il primo atto è la liberazione d’Israele dall’Egitto.

Nella lettura serale queste benedizioni hanno una formulazione più breve, ma se ne aggiunge un’ulteriore alla fine sulla concessione divina all’uomo del riposo notturno. Con la lettura dello Shemà e delle sue benedizioni, il nucleo della liturgia quotidiana, del mattino (Shachrit) e della sera (Arvit), che precede la Amidà (la preghiera per eccellenza, insieme di istanze, di omaggio a di benedizioni), era ormai costituito e rimase valido per tutti i secoli successivi fino ad oggi, sia nel culto pubblico sinagogale, sia nelle preghiere individuali per chi non si reca in sinagoga. (Va ricordato che esiste anche la preghiera pomeridiana (Minchà) in corrispondenza e sostituzione del sacrificio pomeridiano presso il tempio di Gerusalemme).

Una terza lettura quotidiana privata (del solo primo brano o di tutti e tre, secondo le usanze), fu introdotta più tardi dai maestri del Talmud (v. Berachot, 4b-5a) prima di coricarsi, per rivolgere il pensiero a D. e confermare la propria fede nel momento in cui si conclude la giornata, e quest’usanza vige tuttora insieme alle altre.

Oltre all’orario e all’ordine, si stabilirono poco alla volta anche un insieme di altre regole riguardanti le modalità della lettura dello Shemà. Vediamone le principali:

- lo Shemà deve essere letto e non recitato a memoria per non incorrere nel minimo errore di pronuncia;
- lo Shemà può essere letto anche in lingua diversa dall’ebraico, pur di mantenere il medesimo scrupolo per l’esatta pronuncia;
- lo Shemà va letto con emissione di voce udibile dalle orecchie, specialmente per il testo del primo brano;
- nel corso della lettura, occorre fare piccole pause tra una parola e l’altra in tutti i casi in cui l’ultima lettera della prima parola, unita alla seconda parola, potrebbe assumere un altro significato (p. es. “vecharà af” = “…si accenderà la collera…” e non “vecharaf” = “…maledirà (opp. offenderà, disprezzerà)…”;
- nella lettura del primo verso è richiesta la massima concentrazione; si usa a tal fine coprirsi gli occhi con la mano destra, onde evitare ogni possibile distrazione; si deve accentuare la pronuncia dell’ultima lettera, una daled (che ha il valore numerico 4) per poter riflettere che il S. unico domina le 4 direzioni del mondo;
- quando si giunge nella lettura ai riferimenti ai tefilin ed ai tzitziot, si usa toccarli (o anche baciarli), come ausilio alla meditazione su tali precetti;
- non è ammessa alcuna interruzione durante la lettura di tutto lo Shemà;
- lo Shemà non può essere recitato in luogo non pulito o sconveniente, e neppure in presenza di un morto;
- non si deve interrompersi durante la lettura, né parlare o gesticolare con altre persone;
- nella lettura, occorre arrivare a 248 parole, pari alle membra del corpo umano allora note (volendo simbolicamente affermare che tutte le parti del corpo partecipano all’unisono alla lettura), e al totale dei precetti affermativi (che lo Shema’ richiede di osservare): essendo lo Shemà costituito da 245 parole, occorre alla fine ripetere, nella recitazione pubblica, le ultime due insieme alla prima parola emet (= [la parola] è vera) della benedizione che segue, e, nella recitazione in privato le tre parole “D. Re di fiducia”.

La lettura sinagogale è effettuata normalmente in forma di canto, o di cantillazione, che può essere più o meno solenne, in funzione dei diversi riti, delle usanze locali, e delle circostanze (il canto nella preghiera è di solito considerato un valido strumento per accrescere il “gusto”, il piacere e la partecipazione).

Nella recitazione ordinaria si impiegano le regole usuali per la lettura degli altri passi della Torà. Nelle feste si sottolinea l’importanza del primo verso con apposite melodie più solenni. La citazione del solo primo verso ricorre nella formulazione di altre preghiere rituali: nella prima parte della preghiera del mattino, al termine di un'altra importante affermazione di fede (“Alenu leshabeach”), nella preghiera aggiuntiva (Musaf) dei sabati e delle feste, al termine del digiuno di espiazione di Kippur prima del suono dello Shofar, e, secondo molti riti, all’atto dell’estrazione del rotolo della Legge (Sefer Torà) per le letture prescritte (specie nei sabati e nelle feste).

Ciascuna di queste inserzioni meriterebbe una spiegazione a se stante, ma il discorso diverrebbe troppo lungo. E’ importante rilevare che i bambini, fin dalla più tenera età, devono essere educati ad imparare gradualmente lo Shemà, sia nella recita mattutina e serale, sia nella comprensione dei suoi valori. Ciò fa parte dello spirito e della norma delle parole “E le insegnerai ai tuoi figli…” . Scrive A. Pacifici:

“…è detto veshinnantam – le insegnerai, le insegnerai, propriamente, a forza di ripetizione, e s’intende insegnerai tu, singolo figlio d’Israele. Tu insegnerai ai tuoi figli – tu e non altri, tu e non la scuola, tu e non il maestro, chiunque egli sia. Beninteso: non si dice con questo che la scuola sia inutile o non necessaria…..ma il veshinnantam – li insegnerai tu, vuol dire per l’uomo stesso, per il padre, che insegna, acquisto, impossessamento, creazione in se stesso di quella certezza che è chiamato a trasmettere…. Ogni volta è, davvero, un Sinai rinnovato; le generazioni si consumano e si eternano l’una con l’altra, con la benedizione della sapienza certa che il maestro-padre trae dal figlio nel momento stesso che glie la trasmette. Forse nessun altro momento della vita può essere tanto quanto questa vissuta pienezza di amore di D. con l’interezza del proprio cuore, il pensiero, e della propria anima, il sentire e di tutte le facoltà. Mai l’uomo riesce ad essere così «uno» come allora….”

Quando un malato sta per morire, chi lo assiste deve aiutarlo perché pronunci personalmente il primo verso dello Shemà. Scrive in proposito Rav Riccardo Di Segni (“Regole ebraiche di lutto”): “…Con la recitazione dello Shemà si ricollega la vicenda del singolo a tutta la collettività; l’atto di fede al momento del trapasso segna il culmine, o riscatta una intera esistenza”.

Qaddish, santificazione del Nome di Dio.Sia magnificato e santificato il suo grande Nome,
nel mondo che egli ha creato secondo la sua volontà.
Venga il suo regno, durante la vita di tutta la casa d’Israele,
fra breve e nel tempo prossimo. Amen.
Sia il suo grande Nome benedetto per i secoli dei secoli.
Sia lodato, glorificato, esaltato, innalzato, dichiarato eccelso,
splendido, elevato e celebrato il Nome del Santo, egli sia benedetto;
egli è al di sopra di ogni benedizione, canto, lode e parola di consolazione
che si pronunci nel mondo. Amen.
Sia concessa pace dal cielo e vita prospera sopra di noi e sopra Israele. Amen.
Colui che nei luoghi eccelsi stabilisce la pace, nella sua misericordia
stabilisca la pace sopra di noi e sopra tutto Israele. Amen.
Benedite il Signore, degno di lode.
Benedite il Signore, degno di lode in eterno e per sempre. Amen.
La recitazione dello Shemà più ricca di valore, più intensa, più pregnante e commovente è a mio parere quella fatta da coloro che stanno per sacrificare la propria vita per la kedushath aShem, per la santificazione del Nome divino.

Ogni volta che leggiamo le prime parole dello Shemà, viene richiesto a noi ebrei uno sforzo di adesione e convincimento tali da metterci nelle condizioni di essere pronti a sacrificare la vita per l’affermazione dell’Unità, quando questa rischia di essere compromessa.


E’ una richiesta molto impegnativa, a cui forse non si dedica normalmente la dovuta attenzione: l’ebraismo rifugge in genere dall’eroismo, perché attribuisce somma importanza alla vita umana, di fronte alla difesa della quale gli altri precetti possono e devono persino essere trasgrediti; ma non nel caso in cui siano in pericolo l’affermazione dell’Unità divina o la condanna dell’idolatria: in questi casi è un dovere preciso quello di fornire un esempio di massima fedeltà, che suoni come un monito di fronte a tutti, ebrei e non ebrei, come una dimostrazione che solo il corpo e non l’anima cede alla violenza, alla barbarie, alla negazione dell’amore nel D. unico. all’ingiustizia.

Così fece Rabbì Akivà, che affrontò con la massima serenità, di fronte ai suoi allievi increduli, le più atroci torture inflittegli dai romani prima della sua uccisione, nel vano tentativo di offrire un esempio di cedimento nella fede del D. unico. Così fecero tanti altri martiri, nel momento estremo della loro esistenza, quando stava per essere stroncata da coloro che volevano minare con ogni mezzo la loro fede.

Così fecero molti ebrei nei campi di sterminio, nel momento di entrare nelle camere a gas. La tragicità di questi momenti e di questi atti contiene tuttavia un’affermazione positiva di certezza che la perdita della propria vita servirà a salvare in futuro tante altre vite umane, a sconfiggere il male, a perpetuare gli ideali che derivano dall’Unità.

In questa ottimistica certezza (una certezza e non semplicemente una speranza) di fronte alla tragicità degli eventi, risiede il valore più profondo del messaggio dello Shemà. "

LA LETTURA DELLO SHEMA’ A LETTO(Rav Riccardo Di Segni)

Queste parole che oggi ti ordino saranno sul tuo cuore, le inculcherai ai tuoi figli e ne parlerai con loro, quando stai a casa e quando cammini per la via, e quando ti corichi e quando ti alzi”(Devarim 6:6-7).

Sono le parole notissime del primo brano dello shemà’, dalle quali si deduce tra l’altro l’obbligo quotidiano di recitazione dello stesso brano. La tradizione rabbinica privilegia la spiegazione della scuola di Hillel che evita un’interpretazione troppo letterale del testo e intende l’espressione “quando ti corichi e quando ti alzi” nel senso di un’indicazione di orario: “nel momento in cui al gente si corica (cioè la sera) e nel momento in cui si alza (cioè al mattino)” (Berakhot 10b nella mishnà).

Quindi lo shemà’ va letto due volte al giorno in una fascia di orario ben precisa e una volta adempiuto a quest’obbligo non ci sarebbe la necessità di leggerlo nel momento in cui ci si corica.

Tuttavia il Talmud (Berakhot 4b-5a) ripropone l’obbligo in questa forma; Rabbi Yehoshua ben Levi disse: anche se una persona ha letto lo shemà’ in Sinagoga la sera, ha l’obbligo (mitzwa) di recitarlo a letto. Rabbi Yose spiegava qual’ è il verso di riferimento: ‘Tremate e non peccate, dite (parlate) nel vostro cuore sul vostro giaciglio e rimanete in silenzio’ (Salmi 4:5).

Rabbi Nechemia disse: se è un rabbino (talmid chakham) non ne ha bisogno (Rashi spiega: perché è una persona che è abituata a ripetere continuamente quello che ha studiato).
Abbaye disse: anche un rabbino deve recitare un verso in cui c’è una richiesta di misericordia, come ad esempio ‘in mano tua affiderò il mio spirito, mi hai riscattato D-o di verità’(Salmi 31:6)

Da questa serie di affermazioni si deduce che la lettura dello shemà’ a letto adempie al ruolo di accompagnare chi si addormenta con parole di Torà e che oltre a questo esprime la necessità di chiudere la giornata di veglia con una breve invocazione di misericordia.

Da qui lo sviluppo di un breve formulario da recitare, la cui istituzione è codificata nello ShulchanArukh Orach Chayyim 239. I brani che lo compongono (presenti nei differenti riti con varianti di ordine e testi) sono solitamente:
- Una benedizione al Signore che “fa cadere i lacci del sonno sui miei occhi, e il sonno sulle mie palpebre (hamappil chevle shenà…)”; la benedizione dice il contrario di quella che si recita la mattina al risveglio (“che rimuove i lacci del sonno dai miei occhi);
- la benedizione compare nei formulari completa di shem umalkhut, il nome divino e la menzione della sua regalità (melekh ha’olam), ma decisori successivi preferiscono omettere queste menzioni (perché solo la benedizione del mattina sarebbe quella autentica)
- Una serie di invocazioni perché il sonno sia tranquillo e senza incubi, e di versi rassicuranti.
- Il primo brano dello shemà’; alcuni suggeriscono la lettura di tutti e tre i brani, in particolare se la tefillà di ‘Arvith è stata fatta in Sinagoga in un orario anticipato rispetto al sorgere delle stelle.
- Il Salmo 91 (yoshev beseter ‘elion) con il verso che lo precede (wyhy no’am). E’ lo shir shel pega’im  (o shel nega’im), il salmo protettivo per eccellenza, che protegge da ogni male e in particolare al verso 5 dice di “non temere della paura notturna” (l’espressione pavor noctis, usata anche in medicina, deriva probabilmente da qui).
- La preghiera dell’Hashkivenu (“facci coricare in pace…”) che si recita già ad ‘Arvith, e si ripete qui senza la benedizione finale.
- La frase proposta da Abbaye “in mano tua affiderò il mio spirito” inserita in una serie di benedizioni e citazioni. Nel testo che si pubblica qui (e che segue l’opinione dello Shulchan ‘Arukh) riprende l’ultima parte della benedizione che si recita ad ‘Arvith prima del kaddish che precede la ‘amidà.
- Il salmo 128 (ashre kol yere); altri preferiscono il salmo 121 (esà enai el heharim).
- La benedizione sacerdotale.

Lo scopo di tutte le mitzwot è quello di santificare ogni momento della vita.La lettura dello shemà’ a letto, accompagnata da benedizioni e versi rassicuranti si inserisce con la sua particolarità in questo programma, per dare un senso finale di kedushà (sacralità) e serenità agli ultimi momenti di veglia quotidiana.

Infatti una loro ripetizione giornaliera regolarmente prescritta e quindi sistematica è stata considerata come il mezzo più efficace per garantire la continuità della trasmissione da genitori a figli del messaggio che contengono. "


L'amidah : le 18 benedizioni
L'amidà dopo lo Shemà fà parte delle tefillot basilari dell'ebraismo.
L'amidà è anche conosciuta come la preghiera delle 18 benedizioni, anche se in realtà sono 19, una ultima fù aggiunta dopo l'esilio Babilonese.

La si recita rivolti a Gerusalemme in piedi con i piedi uniti, infatti la parola amidà viene da omed che significa stare in piedi ed anche stare: ani OMED lahasot, io sto per fare. Mentre si dice l'amidà non ci si può interrompere fino alla sua conclusione, ricordo che da bambino mi insegnavano che anche ci fossero dei serpenti ai miei piedi è vietato interrompere la preghiera.

In genere la si dice sottovoce, e quando c'è un minian l'officiante la ripete ad alta voce, caratteristico è l'uso che il pubblico dice baruch baruch hu scemò (benedetto benedetto il suo nome) ogni volta che l'officiante benedice il Signore, ed alla conclusione della benedizione dice amèn. Escluso durante l'arvit, la preghiera serale, in cui non c'è la ripetizione.

La prima benedizione è una richiesta di protezione nel nome dei padri.
Dio altissimo che usi benigna misericordia, e di tutto sei il Padrone, che ricordi la pietà dei Patriarchi, e redimi con amore i loro posteri in grazie del Tuo nome. Dà la vita ed aiuti tutti.
Sostieni i cadenti, risani gli infermi, liberi i carcerati, e mantieni la promessa data a coloro che dormono nella polvere. Chi mai Ti può eguagliare in potenza?

E' santo.
Dio grande e santo sei tu, Benedetto sii Tu o Signore Dio Santo.
Concede intelligenza e conoscenza.
Concedici dunque in grazia ragione, intelligenza discernimento.
Ci fà tornare all'osservanza delle Tue Leggi.
Benedetto Tu o Signore che gradisci la penitenza.
Perdona i nostri peccati.
Perchè Dio buono e perdonatore Tu sei.
Ci aiuta.
Guarda la nostra miseria, difendi la nostra causa, e liberaci nostro Re in grazia del Tuo Nome.
Ci guarisca.
In quanto Dio guaritore pietoso e leale Tu.
Ci benedica.
E sazia il mondo con la tua benedizione, e dacci benedizione successo e prosperità su ogni opera delle nostre mani.
Annunci la nostra liberazione.
Radunaci presto dai quattro angoli della terra, nella nostra patria.
Ristabilisca i giudici.
Rimetti i giudici come al principio e i nostri consiglieri (ministri) come all'inizio, e regnaci presto solo Tu, con clemenza misericodia e giustizia.
Spezza i cattivi.
Per i calunniatori e per gli eretici non vi sia speranza.
Sia da aiuto ai giusti.
Accorda generosa mercede a tutti coloro che confidano sinceramente nel Tuo nome, e fa che abbiamo la nostra parte con loro.
Ritorni a Gerusalemme.
In Gerusalemme Tua città con misericordia tornerai, e la rifabbricherai quale edificio eterno presto ai giorni nostri.
Faccia giungere il Messia.
La pianta di David tuo servitore presto fiorirà.
Ascolta la nostra voce.
In quanto Padre pieno di pieta sei Tu, e non torneremo a vuoto davanti a Te.
Ristabilisca il culto.
E sarà gradito il culto d'Israele Tuo popolo.
Sia grazia a Te per i miracoli.
Per i prodigi che ogni giorno operi con noi, per i meravigliosi portenti che fai ad ogni istante, sera mattina e mezzogiorno.
Concedi la pace.
Che ci concedesti legge di vita, di amore e di misericordia, carità, benedizione, salvezza, clemenza e pace.
Amè


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