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Diritto - pag. 1
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ISLAM
Il diritto islamico
         


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AGGIORAMENTI - Islam: verso un diritto naturale?

Origine del diritto islamico di Tariq Ramadan

" .. «Un diritto di origine religiosa non può che imporsi a fedeli di una sola religione mentre i diritti contemporanei basati sulla filosofia laica possono costituire un compromesso accettabile per tutti, in una società pluralista.

E' la radice del conflitto: in una società tradizionale c'è una sola religione, cemento della solidarietà nazionale o tribale; nella società occidentale la regola è la pluralità delle religioni, ivi compreso l'ateismo. »

Quando Muhammad arriva a Medina, si trova in un contesto del tutto particolare in cui coesistono diverse tribù e tradizioni religiose ed in particolare ebrei e cristiani. Egli organizza la sua società tenendo conto di questi parametri al punto che la Costituzione di Medina, elaborata, ricordiamocelo, all'inizio del VII secolo, considera gli ebrei ed i cristiani come membri a tutti gli effetti della società islamica sulla base del principio: essi hanno gli stessi nostri diritti e doveri.


A questo principio il Profeta non mancherà mai ed affermerà chiaramente:

"Nel giorno del Giudizio testimonierò contro chiunque avrà maltrattato o sarà stato ingiusto con un non-musulmano che avrà stabilito un patto con noi".

Il termine mu'ahid vuol dire "un individuo che ha stabilito un contratto" e ciò che deriva da questo concetto è proprio l'idea di un contratto sociale e politico che si fonda fin dall'inizio sul riconoscimento della pluralità e del suo rispetto. Quando più tardi si presentarono altre comunità (come gli zoroastriani) il Profeta richiese di applicare lo stesso principio che per le Genti del Libro, il che fu fatto.

Nel corso dei secoli, questo principio è stato codificato ed applicato in diversi modi. A volte con un gran rispetto e un'apertura che ha permesso la costituzione di spazi sociali e politici molto aperti ed egualitari; a volte, bisogna riconoscerlo, con la sola vernice dell'apparenza, poiché le minoranze non-musulmane hanno potuto subire discriminazioni reali e gravi.

La condizione del dhimmi, del "protetto", l'altro nome per i non-musulmani nelle società musulmane, non è sempre stato lo stesso: a volte è stato elevato al rango di vero cittadino, in base all'orientamento islamico, e a volte ne è stata fatta una lettura restrittiva e chiaramente discriminante, e ciò ne è il tradimento.

Resta il fatto che, fino alla recente epoca dell'Impero ottomano, si sono viste società pluraliste che non si sono accontentate del solo pluralismo di opinioni ma anche del rispetto della diversità delle religioni e delle culture. Si cita spesso l'esempio andaluso, ma si dimentica di far riferimento a tutte quelle società musulmane che, nell'Africa del Nord e dell'Ovest, in Turchia, in Egitto, in Asia hanno permesso una coesistenza diversificata.

Lo testimoniano secoli di presenza ebraica e cristiana in territori musulmani ed il loro impegno oggi in posti chiave del potere, dell'amministrazione e della sfera economica lo provano malgrado le mancanze che bisogna comunque riconoscere e denunciare.
Sulla base delle distinzioni metodologiche che abbiamo presentato tra il culto e gli affari sociali, il rispetto dei principi suddetti deve portare i musulmani a cercare l'organizzazione sociale e politica che, sempre restando fedele ai principi, permette loro di realizzare l'uguaglianza dei diritti e dei doveri nella nostra epoca. Non c'è un unico modello ma esistono principi inalienabili:
- rispetto della persona e della sua pratica,
- accesso ad una cittadinanza ugualitaria ed equa,
- pagamento di una tassa militare dal momento che non si partecipa alle esigenze della protezione militare.

Alcuni sapienti e alcuni intellettuali non esitano ad affermare che i termini mu'ahid o dhimmi sono l'equivalente di "cittadino" oggi, per i doveri e i diritti che dall'origine si associavano a queste nozioni. Il caso dell'ateismo in territorio musulmano non è stato studiato a dovere.

Alcuni sapienti hanno affermato senza sfumature che non poteva essere accettato: cioè, nessuna espressione di ateismo in terra musulmana. Altri sono stati più possibilisti, ammettendo in certi limiti la presenza di atei in una società musulmana.

Bisogna dire che questo tipo di argomentazione, nei termini nei quali è stata posta oggi, è molto recente. Per molto tempo l'ateismo filosofico è rimasto molto marginale nelle società a maggioranza musulmana, in ogni caso nella sua espressione pubblica.

Oggi si deve far fronte a queste evoluzioni e attenersi ad un principio fondamentale: in una società a maggioranza islamica, la costituzione dovrebbe stabilire il riconoscimento del riferimento religioso degli uni e degli altri.

La parola e l'ideologia restano libere dal momento che non si riferiscono ai credo religiosi, ai valori fondamentali e alle sensibilità degli esseri umani, nel rispetto dell'ordine costituzionale. Questo è un modello conosciuto in Occidente.

Legato a un testo scritto in arabo, il diritto islamico risente dello spirito della lingua e della cultura araba.

Una lingua che riproduce per iscritto le sole consonanti apre la possibilità di complesse dispute filologiche. Inoltre la mentalità araba, più algebrica che geometrica, tende ad aggregare le nozioni, ma non a sistematizzarle: i pochi principi giuridici fissati per l'eternità dal Corano costituiscono perciò la base di una casistica indistricabile per chi l'affronta con mente euclidea o cartesiana.

Vincolato ad un testo sacro, il diritto islamico è subordinato al rituale religioso; quindi la scienza giuridica è vincolata dalla teologia.

Le categorie giuridiche sono più sfumate di quelle europee: mentre per il nostro diritto vige la logica binaria del lecito e dell'illecito, per quello islamico l'atto giuridico può essere obbligatorio, raccomandato, permesso, riprovato e vietato.

Nato da una predicazione rivolta dapprima al commerciante cittadino e poi al beduino guerriero da parte di un profeta vissuto troppo brevemente; subordinato a precetti religiosi e, come questi, immutabile; diffusosi in breve tempo su un territorio che andava dall'Indonesia alla Spagna e dai balcani alla Nigeria del Nord, il diritto islamico porta con sé una frattura insanabile: il suo adeguamento a tempi e società nuove è incompatibile con la sua intangibilità.

Esso poté tuttavia sopravvivere ed estendersi grazie alla capacità di convivere con altri diritti e grazie alla natura delle sue fonti, le quali riuscirono in larga misura a integrare le disposizioni coraniche, pur senza innovarle formalmente.

Il giurista in senso occidentale non esiste per il diritto islamico, la figura dell' alim (pl. Ulama) identifica il teologo-giurista esperto di fikh. Naturalmente non esistono negli stati islamici anche facoltà di giurisprudenza simili a quelle occidentali.

Le fonti del diritto islamico Come fonte giuridica, il Corano offre poco materiale.

Dei 6237 versetti che lo compongono, circa il dieci per cento si riferisce a temi giuridici in senso lato. Maometto aveva risolto casi concreti o espresso opinioni che potevano contribuire a colmare in modo autentico le lacune del Corano.

Una "tradizione" deve essere un racconto tramandato da una catena ininterrotta di narratori attendibili e avente per oggetto un comportamento di Maometto, il cui agire è ispirato da Dio. Come è facile immaginare, nel mondo islamico non esiste un'opinione unitaria e concorde su quali hadith siano da ritenere attendibili: una collezione di hadith del IX secolo ne elenca 300.000, di cui soltanto 8000 ritenuti autentici.

Nel IX secolo vennero preparate raccolte di hadith che riferivano i comportamenti, i detti e anche i silenzi del Profeta, da cui si potevano desumere regole di comportamento non epresse dal Corano. Corano e sunna, interpretati anche secondo tecniche minuziose, lasciavano però ancora qualche problema insoluto, né i pareri degli ulema avevano forza sufficiente ad integrare la parola di Dio.

Tuttavia una tradizione della sunna afferma che, se la comunità dei giuristi- teologi dà il suo consenso generale ad una teoria, questa non può essere errata. Questo consenso (ijma) non è facile da definire. Di fatto, l'ijma è intesa come il consenso dei giurisperiti più autorevoli, purché il loro numero sia ragionevolmente grande e il loro parere chiaramente formulato.

L'interpretazione analogica ("qiyas").
Questa fonte è specificamente giuridica, nel senso che l'uso dell'analogia - strumento indiscusso in teologia - fu oggetto di gravi controversie nella soluzione di casi giudiziari, perché si riteneva empio usare la ragione umana per colmare un'apparente lacuna divina.

Ecco un esempio: si riconobbe alla donna, vittima di un reato, un'indennizzo pari alla metà di quello che sarebbe spettato ad un uomo, perché all'uomo spetta un'eredità doppia che alla donna.L'analogia era un apporto esterno all'islam. Essa penetrò nel pensiero islamico attraverso le conquiste dei paesi di cultura irano-ellenistica e fiorì sotto la dinastia degli Abbàsidi (nel 700-800 d.C.). E' sotto questa dinastia che il diritto islamico assunse la sua forma odierna e in essa si cristallizò. Con il passaggio della capitale imperiale da Damasco a Bagdad, il travaso culturale tra conquistatori e conquistati si attuò decisamente.

E' a questo punto che elementi del pensiero greco vennero inglobati nel ragionamento giuiridico-teologico dell'islam, così come norme giustinianee ed ebraiche vennero inglobate nel suo diritto.

Poi, alla fine della dinastia abbàside nel 935 d.C., i regionalismi si fecero più forti; ma il diritto sacro, il fikh, si era ormai pietrificato come una colata di lava al termine del suo corso.L'estensione delle conquiste islamiche islamiche e il perdurare di grandi stati islamici fino al secolo XIX rendeva indispensabile integrare di fatto il sistema classico delle fonti con altri strumenti, legati a una più sviluppata attività legislativa e giudiziaria, ovvero a particolari tradizioni locali. Va ricordato, però, che le fonti non canoniche non fanno parte delle fonti classiche islamiche appena sopra elencate. 

La consuetudine ("urf"). Bisogna distinguere i paesi islamici retti da un diritto consuetudinario non islamico (come l'Indonesia) e i paesi di diritto islamico in cui la consuetudine (urf) sembra essere esclusa dalle fonti del diritto. L'urf, tuttavia, ha una sua esistenza non ufficiale, legata a situazioni anteriori all'islamizzazione di un certo territorio, e contribuisce a integrare il diritto islamico. Una consuetudine locale, ad esempio, può stabilire il termine entro cui deve essere pagata la dote.

Le decisioni giudiziarie Anch'esse tendono ad integrare questo diritto: i malikiti seguivano le pronunce di Medina, gli hanbaliti e hanafiti quelle irachene e gli shafiiti quelle della Mecca. Infatti la fuga di Maometto a Medina divide il suo insegnamento in due parti, una più adatta ad una società di
Il decreto del sovrano ("qanun"). L'assestamento dell'impero islamico e, in seguito, la formazione di parlamenti generarono come ultima fonte il decreto del sovrano del singolo paese, introducendo così una duplice giurisdizione: mentre il cadi, giudice monocratico religioso, continuò ad applicare la legge sacra, i tribunali laici applicarono il qanun.

Il pubblico interesse ("maslaba").
Sempre in tempi recenti, si fece ricorso al concetto di pubblico interesse, inteso in senso lato. In Tunisia, ad esempio, si introdusse un limite alla poligamia sottolineando che un uomo non può comportarsi in modo eguale verso tutte le mogli e che questa ineguaglianza di trattamento (soprattutto economico), oltre a essere contraria al dettame coranico, è contraria anche al pubblico interesse.

Dopo la morte di Maometto sorsero dissensi politici e teologici anche violenti sul modo di interpretare il Corano e di provvedere allo stato musulmano. Nel corso di lotte durate fino al IX secolo, il movimento islamico si divise in varie sette, le principali delle quali sono ancora le seguenti due: i sunniti, così chiamati perché si proclamano seguaci della sunna, sono i più numerosi; e gli sciiti, che si oppongono ai sunniti per antichi dissensi sulla successione del Profeta e, in tempi più recenti, anche per ragioni ideologiche.

A queste principali sette (che subirono numerosi scismi interni), ne vanno aggiunte parecchie altre minori. Pur partendo da un nucleo comune, tutte hanno elaborato un loro fikh, cioè un loro sistema teologico-giuridico. Limitiamoci alle scuole dei sunniti.

Nel corso dell'assestamento del diritto islamico sotto la dinastia abbàside nell'VIII secolo, le controversie teologiche impedirono che le estensioni analogiche del diritto sacro venissero incanalate in un'unica direzione: nacquero così quattro scuole ortodosse e numerose scuole eretiche. Ancor oggi il diritto islamico dei singoli stati si richiama a queste scuole o riti, spesso presenti in varia proporzione nella medesima nazione.

Il diritto islamico non è quindi unitario. Le scuole di diritto islamico Le quattro scuole islamiche ortodosse portano il nome del loro fondatore.

La scuola hanafita (diffusa in Turchia, Egitto, India, Pakistan, e nell'ex URSS) è la più liberale, perché tende a sottolineare il carattere formale del comportamento del fedele ma, una volta rispettata la forma, ammette che con le finzioni si possano ammorbidire certe proibizioni del Corano.

La scuola malikita (diffusa nel Maghreb) è rigorosa.

La scuola shafiita (diffusa in Indonesia, Siria e Africa orientale) occupa una posizione intermedia tra le due precedenti. Infine, la scuola hanbalita (la più tradizionalista diffusa in Arabia Saudita) segue quella shafiita per quanto riguarda il ragionamento giuridico, ma esige un rispetto stretto della sunna e strettissimo del Corano; la sua importanza divenne rilevante nel XX secolo, quando si generò una comunione d'intenti tra gli hanbaliti e il movimento dei wahhabiti, tuttora dominante in Arabia Saudita.

Le quattro scuole islamiche ortodosse operarono l'estensione del diritto sacro con una certa libertà fino alla caduta della dinastia degli Abbàsidi (avvenuta nel 1258, con la conquista mongola di Bagdad). A partire da quella data non furono più possibili interpretazioni estensive: come si soleva dire, venne chiusa la "porta dello sforzo". Per i secoli successivi il diritto islamico restò immutabile, anche se eterogeneo.

Poiché queste sono tutte ortodosse e poiché il giudice musulmano era unico e non teneva registrazioni dei casi decisi, il soggetto di diritto islamico poteva passare da un rito all'altro senza alcuna formalità né definitività.

Ciò non è invece possibile per le eresie e le sette. Tra queste ricordiamo il sufismo, ponte tra il monachesimo orientale e il cenobitismo occidentale, e i wahhabiti, rigidamente conservatori, la cui potenza è andata crescendo nei tempi moderni. Essi controllano oggi le città sante e ampie zone dell'Arabia.

La superiorità dell'elemento religioso su quello giuridico comporta la soggezione del credente in quanto tale al diritto islamico, indipendentemente dalla sua appartenenza ad uno Stato con un diverso sistema giuridico. E' questa dissociazione che ha permesso alla conquista araba di affiancare il suo diritto a quello preesistente su un certo territorio, ovviando così a molte carenze del diritto islamico. Esempi di questa co-vigenza di ordinamenti sono la penisola iberica e il subcontinente indiano.La pluralità di ordinamenti non intaccava così l'unità formale del diritto islamico.

Bergstrasser ha individuato tre settori con differenti gradi di rigidezza:
1) le norme relative ai riti, alla famiglia e all'eredità sono le più legate ai precetti sacri;
2) le norme di diritto pubblico sono svincolate dai precetti sacri e possono essere addirittura considerate fuori dalla nozione islamica di diritto sacro;
3) le norme relative al diritto dell'economia (specie del diritto commerciale) si trovano a metà strada tra le altre due.

Quello che nel diritto europeo si chiama diritto pubblico non fa parte del diritto islamico in senso stretto (fikh).

Anche se i primi contrasti tra musulmani furono di natura politica e generarono la grande divisione tra sunniti e sciiti, i problemi teorici dello Stato e della politica vennero affrontati quando lo Stato era già consolidato. Anche il diritto pubblico islamico è ramificato, ricco di contrastanti opinioni.

L'apparizione di trattati di diritto pubblico è tarda e coincide con la decadenza del califfato nel V secolo dell'ègira. Infatti Maometto morì prima di poter codificare le norme per la gestione dello Stato islamico, che poté essere così amministrato con la massima flessibilità. Questo era indispensabile ad uno Stato che conosceva una continua espansione fondata sulla guerra.

Il diritto penale non presenta una distinzione netta tra peccato e reato, dato il carattere religioso dell'intero sistema giuridico Di conseguenza, il diritto penale fa la sua apparizione come disciplina relativamente autonoma solo verso il XII secolo dell'ègira.

I reati penali I reati penali si possono distinguere in tre grandi categorie.

Alla prima appartengono i reati espressamente puniti dal Corano e dalla sunna. Prendono il nome di reati hudud, sono i più gravi e il giudice ha nei loro riguardi un potere discrezionale molto limitato. Contro questi reati la religione nascente viene difesa con durezza: la flagellazione e la pena di morte colpiscono i reati contro Allah, quali l'apostasia, la bestemmia o l'adulterio. Pene corporali severe vengono applicate a reati gravi come il furto o il brigantaggio. Questi reati vengono sempre perseguiti d'ufficio, perché rivolti contro Dio e lo stato è il vicario di Dio sulla terra.

Alla seconda categoria appartengono i delitti di sangue (reati qisas). Anche qui le pene sono determinate dal Corano e dalla sunna, quindi la discrezionalità del giudice è limitata. Essi sono puniti con la legge del taglione, la quale - a discrezione della vittima o della sua famiglia - può essere sostituita dal prezzo del sangue o dl perdono.

Nel ricorso al taglione si può osservare come il giudice islamico (ma questo è tipico dei diritti primitivi) non tiene conto della volontarietà dell'atto, ma si limita a impedire la vendetta sorvegliando l'equa applicazione della pena del taglione o, se la parte accetta, del pagamento del prezzo del sangue.

Il giurista occidentale tende a trovare eccessiva una discrezonalità che oscilla tra una pena grave come il taglione e il perdono. Quest'ultima alternativa risulta più compresibile ricordando che il dirito islamico classico non teneva conto della volontarietà dell'ato. In caso di incidente, per esempio, il perdono è una soluzione equa.

La terza categoria di reati - detti tazir- comprende infine quei comportamenti che, di epoca in epoca, sono stati considerati nocivi alla buona convivenza sociale, ma per i quali né il Corano, né la sunna prevedono pene specifiche.

La loro punizione ricade quindi nell'ambito della discrezionalità del giudice. Risulta perciò difficile fissarne con precisione la fattispecie, perché variano di luogo in luogo e di epoca in epoca. Le si può individuare soprattutto ex negativo: i reati che non sono né hudud né qisas sono tazir. Nei reati tazir la pena è applicata discrezionalmente dal giudice, secondo un principio di individualizzazione cui i diritti occidentali giungeranno solo più tardi.

Le sanzioni sono ancora però ancora quelle tipiche di uno Stato non strutturato amministrativamente: prigione, fustigazione, confisca dei beni, ammonimento del giudice e così via, fino alla sanzione sociale consistente nel togliere in modo ignominioso il turbante al colpevole (che era infatti simbolo esterno dello status sociale di chi lo portava).

Discrezionalità non significa necessariamente arbitrarietà. Un tempo essa era indispensabile a causa della vaghezza dei confino che definivano il reato: in questo vasto ambito, il giudice - che doveva essere dotto e pio - valutava caso per caso come decidere.

E' chiaro che se il giudice non è né dotto né pio, ma lo strumento di una dittatura, l'elemento deterrente insito nelle pene coraniche diviene uno strumento di repressione politica.La parte tecnico-giuridica dell'originario diritto islamico è carente di molte nozioni che vengono ritenute essenziali per un diritto penale occidentale: esso ignora infatti le nozioni di tentativo, di recidiva, di cumulo delle pene e di circostanze attenuanti o aggravanti.

L'elemento che più differenzia il diritto penale islamico dagli altri è l'assenza di considerazioni dell'elemento soggettivo: ai fini dell'applicazione della pena è sufficiente il risultato materiale, sia esso voluto o no.

Ovviamente, non sono considerati punibili il minore (che nel diritto islamico è l'impubere, e di conseguenza la donna diviene punibile prima dell'uomo) e gli incapaci d'intendere e di volere o per follia o per intossicazione.

Tipi di reato I vari tipi di reato si distinguono in base alla fattispecie, alla prova richiesta e alla punizione prevista:

-Reati hudud: adulterio, diffamazione, apostasia, brigantaggio, uso di bevande alcoliche, furto, ribellione.
-Reati qisas: omicidio volontario con un'arma, omicidio volontario, omicidio per fatto involontario, omicidio indiretto, lesione corporale volontaria, lesione corporale involontaria.
-Reati tazir: sodomia; importazione, esportazione, trasporto, produzione o vendita di vino;
- reati minori (disobbedienza al marito, insulti a terzi); diserzione; appropriazione indebita, falsa testimonianza; evasione fiscale;
- vari reati minori; reo recidivo per un reato tazir; usura, corruzione, violazione dei doveri derivanti da negozi fiduciari.

La natura personale del diritto islamico spiega eventi incompatibili coi diritti occidentali: ad esempio, il perseguimento dei nemici dello Stato islamico anche entro i confini di un altro Stato. Ciò tuttavia non va visto solo come giustificazione dell'assassinio politico. Infatti, solo la personalità del diritto rese possibile una rapidissima espansione territoriale senza scontri con le popolazioni sottomesse.

Un esempio concreto si è avuto nelle terre di al-Andalus, quando nella penisola iberica convivevano arabi, ebrei e cristiani usando norme romane, germaniche e islamiche.

La Shariah Un diritto di origine religiosa non può che imporsi a fedeli di una sola religione mentre i diritti contemporanei basati sulla filosofia laica possono costituire un compromesso accettabile per tutti, in una società pluralista.

E' la radice del conflitto: in una società tradizionale c'è una sola religione, cemento della solidarietà nazionale o tribale; nella società occidentale la regola è la pluralità delle religioni, ivi compreso l'ateismo.

Sussistono oggi profondi malintesi nel campo della legislazione islamica a causa della comprensione parziale che di essa si ha in Occidente. 

La colpa non è solo degli orientalisti o degli intellettuali europei, ma anche e soprattutto dei musulmani stessi che manifestano una reale mancanza nello spiegare, comunicare e mettersi nella prospettiva dei loro interlocutori.

La mancanza di comunicazione è gravissima in materia, perciò le propongo di fissare qualche punto di riferimento per meglio entrare nella discussione. Bisogna prima di tutto sottolineare che la prima scienza islamica è il diritto e la giurisprudenza.

Non si tratta mai, per il Profeta dell'islam ed i suoi compagni, di impegnarsi in discorsi teorici di teologia speculativa. La loro attenzione, nel cuore stesso del loro cammino spirituale, si è immediatamente orientata verso l'organizzazione pratica della vita quotidiana dell'individuo e della comunità. E' stato così anche per le prime generazioni di sapienti. 

Il primo termine da definire è quello di shari'ah.

Lo si trova oggi in tutte le salse, se così posso dire, ma non si sa molto bene che cosa significhi questa parola. Letteralmente si tratta della "via", del "cammino verso la fonte" e nel Corano si trova la radice del termine utilizzato per esprimere il fatto che nel corso della storia ogni religione ha ricevuto la sua "via":

"A ciascuno abbiamo dato una via ed una prassi (un metodo, una metodologia). "

I commentatori hanno dato interpretazioni diverse sulla definizione del termine in questione e ciò in funzione, molto spesso, del loro campo di specializzazione. Taluni giuristi, i fuqaha, l'hanno limitato solo al diritto, altri gli hanno attribuito un'accezione più ampia, tenendo conto del fatto che la categorizzazione delle scienze non esisteva all'epoca del Profeta e che si doveva restare fedeli a questa dimensione globalizzante.

Molti sufi hanno espresso la stessa opinione ed hanno affermato che la shari'ah ingloba allo stesso tempo il legame col Trascendente, il cammino spirituale e l'organizzazione della città. Essa è "la via" che esprime la fedeltà della coscienza, del cuore e dell'intelligenza. Siamo lontani dalla pura applicazione di un codice penale riduttivo: si tratta del concetto della vita e della morte, del senso e dei comportamenti. 

Bisogna andare ancora oltre perché, all'orecchio europeo, mescolare così i campi dell'intimo e del pubblico riporta alla mente pessimi ricordi: la teocrazia col suo corteo di deviazioni e di oppressione. E' dunque necessario che il lettore si decentri dai propri punti di riferimento ed in particolare dal suo concetto di "religioso" per comprendere la logica interna del pensiero musulmano.

Ciò di cui dobbiamo occuparci qui è il diritto, che ci fa proseguire il nostro lavoro di chiarificazione: abbiamo già detto che

i due punti di riferimento dell'islam sono il Corano, testo considerato rivelato, e la sunnah, compilazione delle tradizioni che riportano ciò che ha detto, fatto o approvato il Profeta dell'islam. In materia di diritto, la shari'ah è l'insieme delle prescrizioni legali che si trovano in questi due referenti.  Ora, che cosa si può constatare? Nei testi si trovano pochissime prescrizioni di questa natura e, soprattutto, queste sono molto generiche ed insufficienti per elaborare una costituzione o per organizzare completamente una città.

Certo, esse espongono un orientamento al quale il musulmano deve cercare di restare fedele, sapendo che la sua fedeltà sarà necessariamente fondata su un lavoro di razionalizzazione e di contributo umano elaborati alla luce del suddetto orientamento generale. 

Il Fikh Dobbiamo ora dire qualcosa sul fiqh che è in realtà il diritto islamico.

Letteralmente la parola vuol dire "la comprensione profonda" ed è proprio di questo che si tratta. Il lavoro di elaborazione del diritto si fa a partire da una lettura normativa delle fonti al fine di estrarne le prescrizioni giuridiche e di permetterne la classificazione. 

Sono stati specificati due campi essenziali: il campo del culto e della pratica (al-ibadat) ed il campo degli affari sociali in senso ampio (al-mu'amalat).

E' fondamentale capire che, se questi due campi si fondano entrambi sulle fonti scritte, è stata stabilita una metodologia diversa per ciascuno di loro: nel campo del culto le prescrizioni sono molto spesso chiare e precise ed il musulmano deve attenersi alla lettera ai testi. In questo campo che riguarda la preghiera, la zakah, il digiuno ed il pellegrinaggio, gli è consentito fare solo quello che si basa sull'autorità di un testo. 

Avviene tutt'altra cosa nella sfera degli affari sociali, la cui metodologia è improntata ad una logica diversa: cioè, negli affari sociali il campo del possibile è aperto, tanto che non si ha un testo che proibisce di agire in un dato modo. Contrariamente al culto, il principio fondamentale qui è il permesso.

Potremmo dire che tutto è permesso salvo quello che è esplicitamente proibito. 
L'ijtihad Una volta specificate così le due sfere, si comprende meglio qual è il ruolo della terza fonte del diritto musulmano, l'ijtihad, lo sforzo di elaborazione giuridica che il sapiente intraprende alla luce delle fonti.

Si tratta infatti di promulgare pareri giuridici per situazioni che i testi scritti non considerano direttamente. Questo lavoro sarà quasi inesistente per quello che riguarda il culto poiché questo è stato fissato una volta per tutte.

Non è la stessa cosa per gli affari sociali per i quali un conseguente lavoro deve essere elaborato dall'intelligenza umana. A partire dagli orientamenti generali contenuti nelle fonti, i sapienti devono trovare risposte fedeli ai testi ed adatti al loro contesto.

Il diritto islamico è dinamico, evolutivo, e soprattutto fondato sull'esigenza di razionalità ed elaborazione umane. Non ha niente a che vedere con l'idea di un diritto fisso, totalmente disumanizzato perché rivelato: al contrario, la rivelazione esige che la ragione umana svolga il suo ruolo.

Essa è un dono divino che permette la comprensione di ciò che è rivelato e, per estensione, è il riferimento dell'uomo quanto alla sua capacità di restare fedele seguendo la via. Non c'è fedeltà senza intelligenza.

Nessun pensiero dogmatico qui, perché il Profeta stesso aveva concesso il diritto all'errore, affermando:

"Chiunque compia uno sforzo di elaborazione giuridica e trova una buona risposta riceve due ricompense; chiunque compia uno sforzo di elaborazione giuridica e si sbaglia avrà una ricompensa".

E' non solo un diritto all'errore ma anche un incoraggiamento alla ricerca, allo spirito d'iniziativa, se lo sforzo è sincero e ricerca la fedeltà nell'evoluzione.



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