La rete come possibilità inedita di costruire un mondo più umano. «Stiamo attraversando un periodo storico molto particolare: il progresso tecnico ci ha offerto possibilità inedite di interazione tra uomini e tra popolazioni, ma la globalizzazione di queste relazioni sarà positiva e farà crescere il mondo in umanità solo se sarà fondata non sul materialismo ma sull’amore, l’unica realtà capace di colmare il cuore di ciascuno e di unire le persone».
I vescovi cattolici e la reteFonte : News Service Vaticano - Sinodo dei vescovi 2012 -intervento di S.E.R. Mons. Claudio Maria CELLI, Arcivescovo titolare di Civitanova, Presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali (CITTÀ DEL VATICANO)
" La nuova evangelizzazione ci chiede di essere attenti alla “novità” del contesto culturale nel quale siamo chiamati ad annunciare la Buona Novella, ma anche alla “novità” dei metodi da utilizzare.
I Nuovi Media stanno cambiando radicalmente la cultura nella quale viviamo e offrono nuovi percorsi per condividere il messaggio del Vangelo.
Le nuove tecnologie non hanno cambiato solo il modo di comunicare, ma hanno trasformato la comunicazione stessa, creando una nuova infrastruttura culturale che sta influendo sull’ambiente della comunicazione e non possiamo fare quello che abbiamo sempre fatto, pur con le nuove tecnologie.
L’arena digitale non è uno spazio “virtuale” meno importante del mondo “reale” e, se la Buona Novella non è proclamata anche “digitalmente”, corriamo il rischio di abbandonare molte persone, per le quali questo è il mondo in cui “vivono”.
La Chiesa è già presente nello spazio digitale, ma la prossima sfida è cambiare il nostro stile comunicativo per rendere tale presenza efficace, occupandoci soprattutto della questione del linguaggio. Nel forum digitale il discorso è spontaneo, interattivo e partecipativo; nella Chiesa, siamo abituati a usare i testi scritti come normale modo di comunicazione. Non so se questa forma possa parlare ai più giovani, abituati a un linguaggio radicato nella convergenza di parola, suono e immagini.
Siamo chiamati a comunicare con la nostra testimonianza, condividendo nelle relazioni personali la speranza che abita in noi. Non possiamo diluire i contenuti della nostra fede, ma trovare nuovi modi per esprimerla nella sua pienezza.
Siamo obbligati a esprimere noi stessi in modo da coinvolgere gli altri che a loro volta condividono le nostre idee con i loro amici e “followers”. Abbiamo bisogno di valorizzare le “voci” dei molti cattolici presenti nei blogs, affinché possano evangelizzare, presentare l’insegnamento della Chiesa e rispondere alle domande degli altri. Penso alla Chiesa che è chiamata ad instaurare un dialogo rispettoso con tutti, a dare ragione a tutti della speranza che porta nel cuore. "
Spadaro – La tecnologia è l’espressione della libertà dell’uomo: non è solo espressione della sua volontà di potenza sulla realtà, ma è anche la capacità dell’uomo – appunto – di relazionarsi in maniera libera nei confronti del mondo e di costruire il proprio futuro. Evidentemente questo ha a che fare con la vita spirituale dell’uomo perché semmai si può agire male o agire per il male: paradossalmente è proprio questa la prova del fatto che la tecnologia ha una capacità spirituale, diventando cioè il luogo di espressione della libertà e dello spirito dell’uomo.
Attarian – Una sua affermazione ha suscitato un po’ di scalpore: la rete – lei ha detto – non è un mezzo di evangelizzazione…
Spadaro – Sì, la rete non è uno strumento, non è come un martello che si può utilizzare come un qualcosa di oggettivo, come appunto un oggetto; è, al contrario, un contesto, un contesto esperienziale, un ambiente di vita. Questo lo vediamo sempre di più: i giovani, soprattutto i cosiddetti “nativi digitali”, vivono la rete come un luogo dove esprimere la loro capacità di relazione, un luogo attraverso il quale conoscono il mondo, conoscono la realtà. Quindi la rete non è uno strumento, non può essere un mezzo neanche di evangelizzazione: semmai è un luogo di evangelizzazione. Per la Chiesa si tratta di incontrare gli uomini lì dove sono ed oggi gli uomini sono anche in rete e quindi la Chiesa è chiamata ad essere in rete.
Attarian– Nel suo intervento ha parlato di tre punti critici…
Spadaro – Il primo punto criticoconsiste nella dimensione antropologica della ricerca di Dio: mi sono chiesto che cos’è la ricerca di Dio al tempo dei motori di ricerca? Come la rete, dato che la rete ha un impatto sul nostro modo di pensare e di conoscere, contribuisce a porsi la domanda di Dio, la domanda su Dio? Quindi se ci abilita o meno a cercare di Dio. Questo è il primo argomento.
Il secondo riguarda le relazioni di comunione: oggi la rete è composta di networks, di communities e quindi di comunità, di connessione tra le persone. Qual è la relazione tra questa connessione e la comunione che la Chiesa è chiamata a vivere?
Il terzo puntoriguarda invece la questione dell’autorità: sappiamo infatti che in rete ci sono collegamenti che non sono strutturati in maniera gerarchica e tutte le relazioni sembrano svolgersi all’interno di relazionalità orizzontali, quindi non gerarchiche. In che modo allora l’autorità della Chiesa può essere intesa oggi, quando la sensibilità comune è avulsa da una gerarchia molto precisa? Nel mio intervento dicevo che la carta da giocare in questo tempo è quella della testimonianza, perché è vero che la rete si fonda su collegamenti orizzontali, ma è anche vero che i contenuti passano attraverso le relazioni e questo lo vediamo con i social network, con Facebook: qualcosa viene comunicato, un contenuto è comunicato solo se scambiato attraverso relazioni di amicizia. E questo la Chiesa lo definisce da sempre testimonianza.
Il credere non si risolve in qualcosa di astratto e remoto ma è calato nella realtà quotidiana dell’individuo, inclusa quella digitale: è la cyberteologia.Articolo del Card. Gianfranco Ravasi apparso su Il Sole 24 Ore di domenica 23 settembre 2012
«Noi non crediamo più agli dèi lontani/né agli idoli né agli spettri che ci abitano./ La nostra fede è la croce della terra / dov’è crocifisso il figliuolo dell’uomo».
Certo, Fortini quando scriveva questi versi in Varsavia 1939 reinterpretava laicamente l’Incarnazione e la Crocifissione cristiane, ma coglieva implicitamente il vero nodo centrale che lega insieme i vari fili tematici del cristianesimo.
Il Logos astratto e remoto dei Greci e l’idolo pesante e inerte del paganesimo erano spazzati via e sostituiti da un soggetto unitario, Cristo, che intrecciava in sé divinità e umanità, immanenza e trascendenza, contingente e assoluto, storia ed eternità, crocifissione e risurrezione.
Il cristianesimo esige una fede infitta nella ragione, una divinità insediata nella società.
Per questo “Anno della Fede” – indetto da Benedetto XVI a partire dall’11 ottobre (cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II) e che durerà fino al novembre dell’anno prossimo – vorremmo ora suggerire, fra i tanti possibili, alcuni volumi di “contesto”.
La fede cristiana è, come si diceva, “incarnata” e non alienante, il credere non è un’eterea ascensione estatica, ma un’adesione esistenziale e fiduciale a un Dio personale e alla sua verità.
È inevitabile, quindi, l’accamparsi del fedele nella piazza della storia e non solo nell’intimità velata di incenso del tempio. Elencheremo, perciò, alcuni testi che delineano l’orizzonte in cui deve collocarsi il credente con la sua testimonianza.
È naturale che il grembo più vasto è quello della modernità che, da quel Seicento in cui brillò l’«Io» autonomo di Cartesio e si configurò lo statuto indipendente della scienza rispetto alla teologia con Galileo e Newton, si è ora dispersa nella “liquidità” della postmodernità.
Il sociologo Sergio Belardinelli preferisce parlare di «tarda modernità» della quale vuole offrire un “sillabario” di quaranta voci, dall’«Aldilà» fino al «Treno». Quest’ultimo lemma piuttosto curioso fa comprendere quanto sia ancor oggi possibile l’allegoria, posta accanto alla “pesantezza” di termini come biopolitica, consumismo, globalizzazione, guerra, laicità, mercato, parlamento, potere e così via.
La vivacità del dettato e il respiro sottilmente ottimistico che animano le varie “sillabe” da reimparare nel linguaggio moderno fanno comprendere come non sia legittimo un certo scoramento pessimistico del cristiano.
La destrutturazione e decreazione a cui si è votata la cultura postmoderna può avere come estuario non necessariamente il vuoto e lo spaesamento, ma può essere simile a una piattaforma libera da cui ripartire, recuperando l’eredità apparentemente stinta ed estinta della cristianità e della stessa modernità.
Imbraccia, invece, «l’arco di bronzo» descritto dal Salmista per scagliare le sue frecce «contro gli idoli postmoderni» un teologo raffinato come Pierangelo Sequeri. Tuttavia, il vitello d’oro che egli abbatte non viene brutalmente polverizzato e fatto inghiottire come accade nel celebre racconto biblico, bensì è sottilmente sconfitto attraverso la via dialettica dell’argomentazione, della riflessione e della critica motivata.
Sì, perché l’idolo è in realtà solo il segno esteriore di un pensiero, di una concezione esistenziale, di una passione maniacale. Di questi «idoli di testa» l’autore elenca quattro figure che si compongono quasi a punti cardinali di una mappa della nostra contemporaneità.
Ecco, allora, la fissazione della giovinezza, l’ossessione della crescita e dell’accumulazione, il totalitarismo della comunicazione, l’irreligione della secolarizzazione.
I vaccini liberatori sono indicati in pagine molto mobili, affidate a un linguaggio spesso evocativo eppure incisivo, ramificato e ammiccante, fieramente critico ma convinto alla fine che ogni vizio è una virtù degenerata e recuperabile, dato che carbone e diamante hanno la stessa base, il carbonio, come ricordava Karl Kraus.
Sequeri elenca il «totalitarismo della comunicazione» tra gli idoli postmoderni ed è difficile dargli torto. Eppure, i nuovi linguaggi informatici sono anche una sorprendente svolta culturale, analoga alla scoperta del fuoco, osava dire il sociologo dei media John P. Barlow. Vale qui, allora, in modo particolare il nesso appena enunciato tra vizio e virtù.
Ed è ciò che fa, in un saggio di straordinaria qualità e godibilità, il gesuita Antonio Spadaro dedicandosi alla “cyberteologia”, ossia al come pensare il cristianesimo nel tempo della rete.
L’intellectus fidei (l’intelligenza della fede), canone fondamentale della teologia di ogni epoca deve ora esercitarsi nel nuovo terreno digitale con la sua grammatica che privilegia la coordinata incisiva rispetto alla subordinata sillogistica, che si affida all’essenzialità emblematicamente incarnata nei 140 caratteri del tweet, che per comunicare si arresta davanti alla frigidità dello schermo del computer, che si innesta in un sistema nervoso planetario, che alla distesa dell’eco temporale sostituisce l’istantaneità del dato.
Ma tra le tante analisi preziose di questo internauta religioso, capace di critica, fondamentale è quella di “connettere” al linguaggio digitale l’antico annuncio fatto di parole proclamate, di sacramenti celebrati, di visioni sistematiche dell’essere e del l’esistere proprie del cristianesimo.
Abbiamo ormai solo lo spazio per una semplice citazione di due incursioni in ambiti particolarmente roventi della modernità, quelli della scienza e della politica. Suggeriamo, allora, di non perdere due testi essenziali.
Il primo raccoglie il dialogo di un giornalista con un geniale scienziato e teologo, il sacerdote polacco Michael Heller, interpellato sul tormentato eppur esaltante confronto tra scienza e fede, un incrocio ormai antico che si è consumato attorno a domande capitali per entrambe, come l’origine dell’universo, l’evoluzione della materia e della vita, la genesi dell’uomo, l’approccio conoscitivo sperimentale e teorico, la casualità o l’ordine dell’universo e così via. Infine, ecco la vexata quaestio, sempre incandescente e mai del tutto risolta nell’esperienza storica, quella del rapporto tra fede e politica.
È uno dei migliori teologi italiani, Severino Dianich, ad affrontare il tema non dal punto di vista della sociologia o antropologia religiosa, bensì in sede squisitamente teologica, come capitolo rilevante dell’ecclesiologia.
Chiesa e Stato laico sono, quindi, collocati in un confronto che è esaminato stando sul versante ecclesiale, interpellando perciò prima di tutto e sopra tutto la Chiesa nel suo presentarsi e confrontarsi con la società moderna democratica e secolarizzata.
Si è tenuto a Rio de Janeiro dal 12 al 16 luglio il 1° “seminario sulla comunicazione per i Vescovi del Brasile. " Riporto qui il testo delmio intervento dal titolo “Espiritualidade e elementos para uma teologia da comunicação em rede”.
Internet fa parte della nostra vita quotidiana. Se fino a qualche tempo fa la Rete era legata all’immagine di qualcosa di tecnico, che richiedeva competenze specifiche sofisticate, oggi è un luogo da frequentare per stare in contatto con gli amici che abitano lontano, per leggere le notizie, per comprare un libro o prenotare un viaggio, per condividere interessi e idee. E questo anche in mobilità grazie a quelli che una volta si chiamavano «cellulari» e che oggi sono veri e propri computer da tasca.
Internet è uno spazio di esperienza che sempre di più sta diventando parte integrante, in maniera fluida, della vita di ogni giorno. E’ un nuovo contesto esistenziale, non dunque un «luogo» specifico dentro cui entrare in alcuni momenti per vivere on line, e da cui uscire per rientrare nella vita off line.
La Rete, resa così a portata di mano (anche in senso letterale), comincia a incidere sulla capacità di vivere e pensare. Dal suo influsso dipende in qualche modo la percezione di noi stessi, degli altri e del mondo che ci circonda e di quello che ancora non conosciamo.
In fondo, l’uomo ha sempre cercato di capire la realtà attraverso le tecnologie. Pensiamo a come la fotografia e il cinema hanno mutato il modo di rappresentare le cose e gli eventi; l’aereo ci ha fatto comprendere il mondo in maniera diversa del carro con le ruote; la stampa ci ha fatto comprendere la cultura in maniera diversa. E così via.
La «tecnologia», dunque, non è un insieme di oggetti moderni e all’avanguardia.
Non è neanche, come credono i più scettici, una forma di vivere l’illusione del dominio sulle forze della natura in vista di una vita felice. Sarebbe riduttivo considerarla solamente frutto di una volontà di potenza e dominio. Essa, scrive Benedetto XVI nella Caritas in Veritate,
La tecnologia «è un fatto profondamente umano, legato all’autonomia e alla libertà dell’uomo. Nella tecnica si esprime e si conferma la signoria dello spirito sulla materia», e nel contempo si manifestano le aspirazioni dell’uomo e le tensioni dei suo animo.
L’avvento di internet è stato, certo, una rivoluzione. Tuttavia è una rivoluzione con salde radici nel passato: replica antiche forme di trasmissione del sapere e del vivere comune, ostenta nostalgie, dà forma a desideri e valori antichi quanto l’essere umano. Pensando a internet occorre non solo immaginare le prospettive di futuro che offre, ma considerare anche i desideri e le attese che l’uomo ha sempre avuto e alle quali prova a rispondere, cioè: connessione, relazione, comunicazione e conoscenza. E noi sappiamo bene comeda sempre la Chiesa abbia nell’annuncio di un messaggio e nelle relazioni di comunione due pilastri fondanti del suo essere.
La domanda a questo punto sorge spontanea: se oggi la rivoluzione digitale modifica il modo di vivere e pensare, ciò non finirà per riguardare anche, in qualche modo, la fede?
Se la Rete entra nel processo di formazione dell’identità personale e delle relazioni, non avrà anche un impatto sull’identità religiosa e spirituale degli uomini del nostro tempo e sulla stessa coscienza ecclesiale?
Benedetto XVI col suo messaggio per la 45a Giornata delle Comunicazioni Sociali e il discorso alla Plenaria del Pontificio Consiglio per le Comunicazioni ha indicato una strada in maniera chiara e decisa. Ecco le sue domande:
«quali sfide il cosiddetto “pensiero digitale” pone alla fede e alla teologia? Quali domande e richieste?».
Internet come «ambiente» Internet non è un semplice «strumento» di comunicazione che si può usare o meno, ma un «ambiente» culturale, che determina uno stile di pensiero, contribuendo a definire anche un modo peculiare di stimolare le intelligenze e di stringere le relazioni, addirittura un modo di abitare il mondo e di organizzarlo.
In questo senso la Rete non è un nuovo «mezzo» di evangelizzazione, ma innanzitutto un contesto in cui la fede è chiamata a esprimersi non per una mera «volontà di presenza», ma per una connaturalità del cristianesimo con la vita degli uomini.
La sfida della Chiesa non dev’essere quella del modo di «usare» bene la Rete, come spesso si crede, ma come «vivere» bene al tempo della Rete. Internet è una realtà destinata ad essere sempre più trasparente e integrata rispetto alla vita, diciamo così, «reale».
Questa è la vera sfida: imparare ad essere wired, connessi, in maniera fluida, naturale, etica e perfino spirituale; a vivere la Rete come uno degli ambienti di vita.
È evidente, dunque, come internet con tutte le sue innovazioni dalle radici antiche ponga alla Chiesa una serie di interrogativi rilevanti di ordine educativo e pastorale. Tuttavia vi sono alcuni punti critici che riguardano la stessa comprensione della fede e della Chiesa. Proverò a individuarne alcuni per avviare una discussione alla luce di evidenti incompatibilità come anche di palesi connaturalità.
Come cambia la ricerca di Dio
La prima questione che vorrei sollevare è di ordine antropologico. La «navigazione» sul web è una via ormai ordinaria per la conoscenza. Oggi accade sempre più spesso che, quando si ha la necessità di una informazione, si interroghi la Rete per avere la risposta da un motore di ricerca come Google, Bing o altri ancora. Internet sembra essere il luogo delle risposte. Esse però raramente sono univoche: la risposta è un insieme di link che rinviano a testi, immagini e video. Ogni ricerca può implicare una esplorazione di territori differenti e complessi dando persino l’impressione di una certa esaustività.
Quale fede troviamo in questo spazio antropologico che chiamiamo web?
Digitando in un motore di ricerca la parola God oppure anche religion,spirituality, otteniamo liste di centinaia di milioni di pagine. Nella Rete si avverte una crescita di bisogno religioso che la «tradizione» sembra faccia fatica a soddisfare. L’uomo alla ricerca di Dio oggi avvia una navigazione. Quali sono le conseguenze? Si può cadere nell’illusione che il sacro o il religioso siano a portata di mouse.
La Rete, proprio grazie al fatto che è in grado di contenere tutto, può essere facilmente paragonata a una sorta di grande supermarket del religioso. Ci si illude dunque che il sacro resti «a disposizione» di un «consumatore» nel momento del bisogno. Il vangelo appare solo come una notizia fra molte altre.
Il Vangelo, però, «non è un’informazione fra le altre — affermava nel 2002 l’allora card. Ratzinger —, una riga sulla tavola accanto ad altre», ma è «la chiave, un messaggio di natura totalmente diversa dalle molte informazioni che ci sommergono giorno dopo giorno».
Continuava l’attuale Pontefice: «Se il Vangelo appare soltanto come una notizia fra molte, può forse essere scartato in favore di altri messaggi più importanti. Ma come fa la comunicazione, che noi chiamiamo Vangelo, a far capire che essa è appunto una forma totalmente altra di informazione – nel nostro uso linguistico, piuttosto una “performazione”, un processo vitale, per mezzo del quale soltanto lo strumento dell’esistenza può trovare il suo giusto tono?»
La sfida che abbiamo davanti allora è seria, perché segna la demarcazione tra la fede come «merce» da vendere in maniera seduttiva e la fede come atto dell’intelligenza dell’uomo che, mosso da Dio, dà a Lui liberamente il proprio assenso.
È dunque necessario oggi considerare che ci sono realtà capaci di sfuggire sempre e comunque alla logica del «motore di ricerca» e che la «googlizzazione»della fede è impossibile.
Di recente Google ha introdotto una nuova funzionalità chiamata Instant la quale permette di ottenere i risultati della ricerca già nel momento in cui la ricerca viene effettuata. Se teniamo abilitata la funzione Google Instant e digitiamo la parola God scopriremo che nel «mercato» delle risposte Dio non è certo più «l’essere di cui non si può pensare il maggiore» secondo la definizione di sant’Anselmo.
Infatti, appena vengono digitate le lettere «g», «o» e «d», i suggerimenti automatici in lingua inglese sono in ordine: «gods of Metal», e poi «god of war», «godot» e «godzilla», e cioè, rispettivamente: un videogioco, un festival di musica metal, la più famosa opera teatrale di Samuel Beckett e un mostro del cinema giapponese. Dio in quanto tale (God) non rientra nel campo delle risposte possibili.
La ricerca di Dio al tempo di Google Instant si è fatta difficile…
Possiamo confrontare la logica del motore di ricerca istantanea a quella dei motori «semantici» e alla loro differente logica di funzionamento, fondata sul riconoscimento di una domanda precisa che va posta bene. Un esempio è quello offerto da Wolfram|Alpha. Visto che, al momento, l’unica lingua che comprende è l’inglese, è interessante notare la risposta alla domanda Does God exist? (Dio esiste?): «Mi dispiace, ma un povero motore computazionale di conoscenza, non importa quanto potente possa essere, non è in grado di fornire una risposta semplice a questa domanda».
Lì dove Google va a colpo sicuro fornendo centinaia di migliaia di risposte indirette, Wolfram|Alpha fa un passo indietro. Qual è la differenza? Google è un motore sintattico e si preoccupa unicamente di «censire» le parole che sono all’interno di un testo ma senza in alcun modo tentare di determinare il contesto in cui queste parole vengono utilizzate. La ricerca semantica tenta di invece di avvicinarsi al modo di apprendere dell’uomo, cercando di interpretare il significato logico delle frasi e tentando di carpirne il significato dal contesto.
Il modo in cui si pone la domanda può influenzare l’efficacia della risposta. Ecco, dunque, che cosa possiamo imparare: anche al tempo della Rete la ricerca di Dio deve nascere sempre da un contesto preciso, non dalla capacità di compiere una ricerca «a caso», ma dalla paziente formulazione di una domanda e dal riconoscimento di ciò che si desidera veramente.
Si comprende, quindi, come la Rete «sfidi» la fede nella sua comprensione grazie a una «logica» che sempre di più segna il modo di pensare degli uomini.
L’uomo religioso al tempo della Rete
In tale contesto occorre considerare un possibile vero e proprio cambiamento radicale nella percezione della domanda religiosa. Una volta l’uomo era saldamente attratto dal religioso come da una fonte di senso fondamentale. Come l’ago di una bussola, lui sapeva di essere radicalmente attratto verso una direzione precisa, unica e naturale: il Nord. Se la bussola non indica il Nord è perché non funziona, e non certo perché non esiste il Nord.
Poi l’uomo, specialmente con la Seconda Guerra Mondiale, ha cominciato ad usare il radar che serve a rilevare e determinare la posizione di oggetti fissi o mobili.
Il radar va alla ricerca del suo target e implica una apertura indiscriminata anche al più blando segnale, non l’indicazione di una direzione precisa. E così anche l’uomo ha cominciato ad andare alla ricerca di un senso per la vita e anche di un Dio capace di qualche segno di riconoscimento, che faccia sentire la sua voce. L’espressione di questa logica è la domanda: «Dio, dove sei?». Da qui anche l’attesa di Godot e tante pagine della grande letteratura del Novecento, ad esempio.
L’uomo era inteso comunque come un «uditore della parola» – per usare una celebre espressione del teologo Karl Rahner, che implicitamente ha dato forma teologica alla metafora tecnologica del radar – alla ricerca di un messaggio del quale sentiva il bisogno profondo.
E oggi? Vale ancora questa immagine?
In realtà, sebbene sempre vive e vere, esse reggono meno.
L’immagine che oggi è più presente è quella dell’uomo che si sente smarrito se il suo cellulare non ha campo o se il suo device tecnologico (computer, tablet o smartphone) non può accedere a qualche forma di connessione di rete wireless. Se una volta il radar era alla ricerca di un segnale, oggi invece siamo noi a cercare un canale di accesso attraverso il quale i dati possano passare.
L’uomo oggi più che cercare segnali, è abituato a cercare di essere sempre nella possibilità di riceverli senza però necessariamente cercarli.
L’estrema conseguenza è la logica introdotta dal sistema push che funziona in maniera opposta a quello pull. Il primo implica il fatto che quando un dato è disponibile (una mail, ad esempio) io lo ricevo in maniera automatica perché tengo aperto un canale di ricezione. Il secondo sistema implica il fatto che io possa andare a recuperarlo quando ho voglia di stabilire una connessione.
L’uomo da bussola prima e radar poi si sta trasformando, dunque, in un decoder, cioè un sistema di accesso e di decodificazione delle domande sulla base delle molteplici risposte che lo raggiungono senza che lui si preoccupi di andare a cercarle.
Viviamo bombardati dai messaggi, subiamo una sovrainformazione, la cosiddetta information overload. Il problema oggi non è reperire il messaggio di senso ma decodificarlo, riconoscerlo sulla base delle molteplici risposte che io ricevo. E può essere «nascosto» dovunque.
In un mondo che offre risposte a domande che ancora non sono state formulate, la domanda religiosa in realtà si sta trasformando in un confronto tra risposte plausibili e soggettivamente significative.
Prima vengono le risposte, ed è da queste che l’uomo a chiamato a riconoscere le sue domande più radicali e autentiche.
La grande parola da riscoprire, allora, è una vecchia conoscenza del vocabolario cristiano: il discernimento.
La risposta è il luogo di emersione della domanda. Tocca all’uomo d’oggi, dunque, e soprattutto al formatore, all’educatore, dedurre e distinguere le domande religiose vere dalle risposte che lui si vede offrire continuamente. E’ un lavoro complesso, che richiede una grande preparazione e una grande sensibilità spirituale.
La Chiesa: fili di rete o tralci di vite? La seconda questione che vorrei sollevare è di ordine più prettamente ecclesiologico.
La Rete è oggi sempre di più luogo di networks e di communities. E’ possibile immaginare una vita ecclesiale essenzialmente di Rete?
Una «Chiesa di Rete» in sé e per sé è una comunità priva di qualunque riferimento territoriale e di concreto riferimento reale di vita. Pensiamo alle «chiese» generate dai telepredicatori, che producono una pratica religiosa individuale, che conferma l’esasperata privatizzazione degli scopi della vita e l’individualismo estremo della società dei consumi capitalistica. Non è dovuto al caso il grande successo dei siti di spiritualità diffusa, svincolata da qualunque forma di mediazione storica, comunitaria e sacramentale (tradizione, testimonianza, celebrazione…), tendente a includere tutti i valori religiosi unicamente nella coscienza individuale e spesso di ispirazione new age.
Queste tensioni, com’è ovvio, hanno una ricaduta sul significato dell’«appartenenza» ecclesiale. Essa rischia di essere considerata il frutto di un «consenso» e dunque «prodotto» della comunicazione. In tale contesto i passi dell’iniziazione cristiana rischiano di risolversi in una sorta di «procedura di accesso» (login) all’informazione, forse anche sulla base di un «contratto», che permette anche una rapida disconnessione (logoff). Il radicamento in una comunità si risolverebbe in una sorta di «installazione» (set up) di un programma (software) in una macchina (hardware), che si può dunque facilmente anche «disinstallare» (uninstall).
D’altra parte la Rete, invece, è destinata sempre di più ad essere non un mondo parallelo e distinto rispetto alla realtà di tutti i giorni, quella dei contatti diretti: le due dimensioni, quella on line e quella off line, sono chiamate ad armonizzarsi e ad integrarsi quanto più è possibile in una vita di relazioni piene e sincere.
La Chiesa in se stessa è sempre più compresa (e risulta comprensibile) in termini di network. La Rete dunque pone domande che riguardano la mentalità e il modello con cui può essere compresa la Chiesa nel suo essere «comunità» e nel suo sviluppo.
La Lumen gentium al n. 6, parlando dell’intima natura della Chiesa, afferma che essa si fa conoscere attraverso «immagini varie». Nel passato, oltre a quelle bibliche, sono state usate anche immagini di altro genere per «significare» la Chiesa; ad esempio, le metafore navali e di navigazione.
Alcune immagini infatti possono anche essere «modelli» ecclesiologici. Per «modello» si intende un’immagine impiegata in modo riflesso e critico per approfondire la comprensione della realtà. La domanda a questo punto è se oggi non si ponga la necessità di confrontarsi seriamente con il modello della «Rete» e con ciò che da essa deriva a livello di comprensione ecclesiologica.
Nel suo Thy Kingdom Connected, Dwight J. Friesen, professore associato di Teologia pratica presso la Mars Hill Graduate School di Seattle, immagina «il regno di Dio nei termini di un essere relazionalmente connessi con Dio, gli uni gli altri, e con tutta la creazione».
In questa visione certo possiamo ritrovare quella del Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica che afferma la sacramentalità della Chiesa nel suo essere «strumento della riconciliazione e della comunione di tutta l’umanità con Dio e dell’unità di tutto il genere umano».
Il pensiero di Friesen esprime una visione della Chiesa della cosiddetta emerging church, un ampio movimento complesso e fluido dell’area evangelico-carismatica, che intende reimpiantare la fede cristiana nel nuovo contesto post-cristiano. Ne risulta una Chiesa «organica, interconnessa, decentralizzata, costruita dal basso, flessibile e sempre in evoluzione».
In questa immagine sembra però che la natura e il mistero della Chiesa si diluiscano nell’essere uno «spazio connettivo», un hub di connessioni, che supporta un’«autorità connettiva» il cui scopo consiste sostanzialmente nel connettere le persone. L’idea di Chiesa che emerge da questa visione è quella di una Networked Church, che ripensa e ricomprende le strutture delle chiese locali. Lo scopo primario della Chiesa sarebbe quello di creare e sviluppare un ambiente connettivo dove è facile che la gente si raggruppi nel nome di Cristo.
La Chiesa in questa visione dunque sarebbe una struttura di supporto dove la gente possa «raggrupparsi». La Chiesa non è un luogo di riferimento, non è un faro che in sé emette luce, ma una struttura di supporto per far crescere il regno di Dio.
Non si escludono in tale prospettiva «pastori, capi, vescovi, un pontefice, o altro», ma li si intende come network ecologist, persone che hanno l’incarico di tenere in funzione la rete di connessioni. Questa visione offre un’idea della comunità cristiana che fa proprie le caratteristiche di una comunità virtuale intesa come leggera, senza vincoli storici e geografici, fluida.
Certo una tale orizzontalità aiuta molto a comprendere la missione della Chiesa, che è inviata a evangelizzare. In effetti tutta l’impostazione della emerging ecclesiology è fortemente missionaria. In questo senso valorizza molto la capacità connettiva e di testimonianza. D’altra parte è a forte rischio la comprensione della Chiesa come «corpo mistico», che sembra diluirsi in una sorta di piattaforma di connessioni.
Ora, certamente la relazionalità della Rete funziona se i collegamenti (link) sono sempre attivi: qualora un nodo o un collegamento fosse interrotto, l’informazione non passerebbe e la relazione sarebbe impossibile. La reticolarità della vite nei cui tralci scorre una medesima linfa non è distante dall’immagine di internet, tutto sommato.
Ciò che da un punto di vista cattolico però deve rimanere chiaro è chela Chiesa non può essere compresa come una sorta di grande Rete di relazioni immanenti e orizzontali, ma ha sempre un principio e un fondamento «esterno».
La «con-vocazione» ad essere parte del Corpo di Cristo che è la Chiesa non è dunque riducibile al modello sociologico dell’aggregazione. Essa è «il popolo che Dio convoca e raduna da tutti i confini della terra, per costruire l’assemblea di quanti, per la fede e il battesimo, diventano figli di Dio, membra di Cristo e tempio dello Spirito Santo».
L’appartenenza alla Chiesa è data da questo fondamento esterno perché è Cristo che, per mezzo dello Spirito, unisce a sé intimamente i suoi fedeli; è lui che la unisce a sé in un’Alleanza eterna, rendendola santa (Ef 5, 26).
La Rete può essere compresa come una sorta di grande testo autoreferenziale e, dunque, puramente «orizzontale»: essa non ha radici né rami e dunque rappresenta un modello di struttura chiusa in se stessa.
Se le relazioni in Rete dipendono dalla presenza e dall’efficace funzionamento degli strumenti di comunicazione, la comunione ecclesiale è invece radicalmente un «dono» dello Spirito. L’agire comunicativo della Chiesa ha in questo dono il suo fondamento e la sua origine. Su questo «dono» si fonda la sua intima natura.
La Grazia: «peer-to-peer» o «face-to-face»?
Si comprende bene che uno dei punti critici della nostra riflessione che stiamo facendo è in realtà il concetto di «dono», di un fondamento esterno. La Rete per la Chiesa è sempre e comunque «bucata»: la Rivelazione è un dono indeducibile, e l’agire ecclesiale ha in questo dono il suo fondamento e la sua origine. Ma è il concetto stesso di «dono» che oggi sta mutando.
La Rete è il luogo del dono, infatti. Concetti come file sharing, free software, open source, creative commons, user generated content,social network hanno tutti al loro interno, anche se in maniera differente, il concetto di «dono», di abbattimento dell’idea di «profitto». A ben guardare, però, più che di «dono» si tratta di uno «scambio» libero reso possibile e significativo grazie a forme di reciprocità che risultano «proficue» per coloro che entrano in questa logica di scambio. Comunque c’è una idea «economica» che ha in mente il concetto di «mercato».
In realtà il nodo consiste nel fatto che la logica del dono in Rete sembra sostanzialmente essere legata a ciò che in slang viene chiamato freebie, cioè qualcosa che non ha prezzo nel senso che non costa nulla. Essa si fonda sulla domanda implicita: «quanto costa?», e l’ottica è tutta spostata su chi «prende» (e non «riceve», dunque). Ilfreebie è ciò che si può prendere liberamente. La gratia gratis datainvece non si «prende» ma si «riceve», ed entra sempre in un rapporto al di fuori del quale non si comprende.
La Grazia non è unfreebie, anzi, per citare il teologo Dietrich Bonhoeffer, è «a caro prezzo». Nello stesso tempo la Grazia si comunica attraverso mediazioni incarnate.
La logica della Grazia crea «legami» face-to-face, cioè del «faccia a faccia», come è tipico della logica del dono, cosa che invece è estranea di per sé alla logica del peer-to-peer, cioè del «nodo a nodo», che in se stessa è una logica di connessione e di scambio, non di comunione.
E un «volto» non è mai riducibile a semplice «nodo». Ecco dunque un compito specifico del cristiano in Rete: farla maturare da luogo di «connessione» a luogo di «comunione». Il rischio di questi tempi è proprio quello di confondere questi due termini. La connessione di per sé non basta a fare della Rete un luogo di condivisione pienamente umana. Lavorare in vista di tale condivisione è compito specifico del cristiano. D’altra parte, se il «cuore umano anela a un mondo in cui regni l’amore, dove i doni siano condivisi», come ha scritto Benedetto XVI, allora la Rete può essere davvero un ambiente privilegiato in cui questa esigenza profondamente umana possa prendere forma.
L’autorità tra emittenza e testimonianza
In questa linea di riflessione si colloca il problema dell’autorità nella Chiesa e delle mediazioni ecclesiali in senso più generale.
La Rete, di sua natura, è fondata sui link, cioè sui collegamenti reticolari, orizzontali e non gerarchici. La Chiesa vive di un’altra logica, di un messaggio donato, cioè ricevuto, che «buca» la dimensione orizzontale. Non solo: una volta bucata la dimensione orizzontale, essa vive di testimonianza autorevole, di tradizione, di Magistero: sono tutte parole queste che sembrano fare a pugni con una logica di Rete. In fondo potremmo dire che sembra prevalere nel web la logica dell’algoritmo Page Rank di Google. Sebbene in fase di superamento, esso ancora oggi determina per molti l’accesso alla conoscenza.
Si fonda sulla popolarità: in Google è più accessibile ciò che è maggiormente «linkato», quindi le pagine web sulle quali c’è più accordo. Il suo fondamento è nel fatto che le conoscenze sono, dunque, modi concordati di vedere le cose. Questa a molti sembra la logica migliore per affrontare la complessità. Ma la Chiesa non può sposare tale logica, che, nei suoi ultimi risultati, è esposta al dominio di chi sa manipolare l’opinione pubblica. L’autorità non è sparita in Rete e, anzi, rischia di essere ancora più occulta. E infatti la ricerca oggi si sta muovendo nella direzione di trovare altre metriche per i motori di ricerca, che siano più di «qualità» che di «popolarità».
Tuttavia, nonostante i problemi qui accennati, esiste anche un aspetto importante sul quale riflettere, e che appare oggi di grande importanza: la società digitale non è pensabile e comprensibile solamente attraverso i contenuti trasmessi, ma soprattutto attraverso le relazioni: lo scambio dei contenuti oggi, al tempo delle reti sociali, avviene all’interno delle relazioni. È necessario dunque non confondere «nuova complessità» con «disordine» e «aggregazione spontanea» con «anarchia».
La Chiesa è chiamata ad approfondire maggiormente l’esercizio dell’autorità in un contesto fondamentalmente reticolare e dunque orizzontale. Appare chiaro che la carta da giocare è la testimonianza autorevole.
La logica dei social networks ci fa comprendere meglio di prima che il contenuto condiviso è sempre strettamente legato alla persona che lo offre. Non c’è, infatti, in queste reti nessuna informazione «neutra»: l’uomo è sempre implicato direttamente in ciò che comunica. Ciascuno è chiamato ad assumersi le proprie responsabilità e il proprio compito nella conoscenza.
In questo senso il cristiano che vive immerso nelle reti sociali è chiamato a un’autenticità di vita molto impegnativa: essa tocca direttamente il valore della sua capacità di comunicazione.
Infatti, ha scritto Benedetto XVI nel suo recente Messaggio per la 45° Giornata delel Comunicazioni Sociali, «quando le persone si scambiano informazioni, stanno già condividendo se stesse, la loro visione del mondo, le loro speranze, i loro ideali».
La tecnologia dell’informazione, contribuendo a creare una rete di connessioni, dunque sembra legare più strettamente amicizia e conoscenza, spingendo gli uomini a farsi «testimoni» di ciò su cui fondano la propria esistenza.
Se una volta il testimonial era una figura autorevole speciale, oggi tutti, a loro modo, sono sollecitati a diventarlo.
Si prefigura, quindi, un rinnovato impulso al «misterioso incontro tra le possibilità tecnologiche dei linguaggi della comunicazione e l’apertura dello spirito all’iniziativa luminosa del Signore nei suoi testimoni». Un annuncio del Vangelo che non passi per l’autenticità di una vita quotidiana personale condivisa resterebbe, oggi più che mai, un flatus vocis, un messaggio espresso in un codice comprensibile forse con la mente, ma non col cuore. La fede quindi non solo si «trasmette», ma soprattutto può essere suscitata nell’incontro personale, nelle relazioni autentiche.
La Chiesa in Rete è chiamata dunque non solamente a una «emittenza» di contenuti, ma soprattutto a una «testimonianza» in un contesto di relazioni ampie composto da credenti di ogni religione, non credenti e persone di ogni cultura. L’autorità oggi si gioca molto sul piano della testimonianza autorevole che non scinde il messaggio dalle relazioni «virtuose» che esso è in grado di creare.
Come pensare la Rete teologicamente?
La Rete, come abbiamo visto fino a questo momento, pone sfide davvero significative alla comprensione della fede cristiana. La cultura digitale ha la pretesa di rendere l’essere umano più aperto alla conoscenza e alle relazioni. Fin qui abbiamo identificato alcuni dei tanti nodi critici che questa cultura pone alla vita di fede e alla Chiesa.
Forse dunque è giunto il momento di considerare l’intelligenza della fede al tempo della Rete, cioè la riflessione sulla pensabilità della fede alla luce della logica della Rete.
Si tratta della riflessione che nasce dalla domanda su come la logica della Rete, con le sue potenti metafore che lavorano sull’immaginario, oltre che sull’intelligenza, possa modellare la comprensione della ricerca di Dio, il modo di comprendere la Chiesa e la comunione ecclesiale, la teologia della Grazia e così via.
La riflessione è quanto mai importante perché risulta facile constatare come sempre di più internet contribuisca a costruire l’identità religiosa delle persone. E se questo è vero in generale, lo sarà sempre di più per i cosiddetti «nativi digitali».
Fides quaerens intellectum e questo anche nel nostro tempo in cui la logica della Rete segna la nostra intelligenza della realtà, il nostro modo di pensare, conoscere, comunicare, vivere.
L’immagine che forse rende meglio il ruolo e la pretesa del cristianesimo nei confronti della cultura digitale è quella dell’«intagliatore di sicomori» mutuata dal profeta Amos (7, 14) e interpretata da san Basilio. L’allora card. Ratzinger in un suo discorso a un convegno dal titolo Parabole mediatiche usò questa fortunata immagine per dire che il cristianesimo è come un taglio su un fico.
Il sicomoro è un albero che produce molti frutti che restano senza gusto, insipidi, se non li si incide facendone uscire il succo. I frutti, i fichi, dunque, rappresentano per Basilio la cultura del suo tempo.
Il Logos cristiano è un taglio che permette la maturazione della cultura. E il taglio richiede saggezza perché va fatto bene e al momento giusto. La cultura digitale è abbondante di frutti da intagliare e il cristiano è chiamato a compiere quest’opera di mediazione tra il Logos e la cultura digitale. E il compito non è esente da difficoltà, ma appare oggi più che mai esigente
In particolare è necessario cominciare a pensare la Rete teologicamente, ma anche la teologia nella logica della Rete”. Antonio Spadaro
La Chiesa: corpo mistico o hub di connessioni?di A. Spadaro- in Cyberteologia. Pensare il cristianesimo al tempo della rete, Milano, Vita e Pensiero, 2012-http://www.cyberteologia.it
... scrive Dwight J. Friesen che ...
Google ci aiuta a comprendere meglio i connective leaders, perché il noto motore di ricerca non è in se stesso l’informazione che cerchiamo, ma ciò che ci collega a quello che cerchiamo.
Nessuno visita il sito di Google per se stesso, per visitare il sito, ma per raggiungere ciò che cerca. Dunque, conclude Friesen, «questa visione connettiva (networked) di leadership è vitale per comprendere chi sia il leader connettivo e quale autorità relazionale sia in ballo in una visione relazionale connettiva (networked) del mondo».
L’autorità di Google non è intrinseca, ma è qualcosa che il motore si guadagna consegnando ai suoi utenti le connessioni che riesce a stabilire. Questa è l’“autorità connettiva” di Google: la sua capacità di mettere in relazione.
L’idea di Chiesa che emerge da questa visione è quella di una Networked Church, che ripensa e ricomprende le strutture delle chiese locali. Esse diventano Christ-Commons, il cui scopo primario è quello di creare e sviluppare un ambiente connettivo dove è facile che la gente si raggruppi (to cluster) nel nome di Cristo.
Per comprendere questa idea, occorre chiarire due concetti-chiave: quello di common e quello di cluster.
Il common è uno spazio connettivo pubblico quale, ad esempio, una piazza, un giardino pubblico di proprietà non privata. Questo termine è usato per indicare altre cose di carattere “comune”. In particolare, in rete l’espressione è ben nota perché indica una tipologia di licenze che permettono a quanti detengono diritti di copyright di trasmetterne alcuni al pubblico e di conservarne altri. Per esempio di poter distribuire un testo originale senza però avere il diritto di modificarlo, oppure di poterlo distribuire purché non in maniera da trarne profitto economico. È una licenza destinata alla condivisione senza tutte le restrizioni tipiche del classico copyright, dunque.
Tutto questo entra nell’idea del Christ Common, che è «una struttura visibile, qualcosa come un’istituzione, una denominazione, un edificio, una celebrazione, un piccolo gruppo che è formalmente creato con la speranza che la struttura costituisca un ambiente o uno spazio dove le persone possano fare un’esperienza di vita in connessione con Dio e con gli altri.
La Chiesa, in questa visione, sarebbe dunque una struttura di supporto, un hub, una piazza, dove la gente può “raggrupparsi”, dar vita a gruppi, o meglio “grappoli” (cluster) di connessioni. Il termine cluster ha un’eco precisa nel mondo della telematica, perché identifica un insieme di computer connessi tramite una rete. Lo scopo di un cluster è di distribuire un’elaborazione molto complessa tra i vari computer che lo compongono.
Questo ovviamente aumenta la potenza di calcolo del sistema. Dunque
...
la Chiesa come Christ Common non è un luogo di riferimento, non è un faro che in sé emette luce, ma una struttura di supporto. Il suo obiettivo non è far crescere i suoi membri, ma far crescere il regno di Dio.
Questa visione offre un’idea della comunità cristiana che fa proprie le caratteristiche di una comunità virtuale leggera, senza vincoli storici e geografici, fluida. Certo, questa orizzontalità aiuta molto a comprendere la missione della Chiesa, che è inviata a evangelizzare. In effetti tutta l’impostazione della emerging ecclesiology è fortemente missionaria. In questo senso valorizza la capacità connettiva e di testimonianza. D’altra parte sembra smarrirsi la comprensione della Chiesa come “corpo mistico”, che si diluisce in una sorta di piattaforma di connessioni…
Il cardinale presentava 5 modelli diversi di Chiesa che richiamavano ciascuno un particolare aspetto della Chiesa contemporanea .
" La Chiesa" scriveva il cardinale "è un mistero" , qualcosa che cioè attiene al divino e dunque è una realtà che non può essere descritta oggettivamente come un fenomeno qualsiasi : " si può parlarne solo analogicamente " , utilizzando cioè dei modelli analogici.
Dulles ha sviluppato 5 modelli analogici di Chiesa sulla base delle diverse scuole teologiche e tradizioni cattoliche e protestanti per mettere in luce 5 diversi aspetti della Chiesa :
- Chiesa come
istituzione,
-
Chiesa come comunione mistica,
-
Chiesa come sacramento ( o mistero),
- Chiesa come
annuncio
-
Chiesa come servizio.
Nessuno dei 5 modelli è in grado di cogliere tutta la realtà della Chiesa ma ciascuno di essi getta una sguardo profondo sulla sua natura. Questi 5 modelli- spiegava il cardinale- pur trattando di verità immutabili del cristianesimo non sono modelli immutabili. Come dire : i modelli analogici cambiamo, le verità rimangono.
Dulles sosteneva infatti che " murarsi dentro ad una posizione teologica fissa è un disastro sia umano che spirituale. Le immagini e le forme della vita cristiana continueranno sempre a mutare nella storia come è successo fin dai primi secoli. In una sana comunità di fede la produzione di nuovi miti e simboli è continua. ".
Nella nostra epoca l'esplosione di nuovi mezzi di comunicazione - ed in particolare la capacità dei mezzi digitali di far collassare lo spaziotempo e di creare connessioni globali in tempo reale - offre un "modello 21° secolo " che può essere molto più utile dei vecchi paradigmi per comprendere la Chiesa.
Oggi noi possiamo avere una immagine più chiara di cosa possa intendersi per " corpo universale di Cristo" come mai abbiamo potuto averla. Le interazioni globali istantanee che i nuovi mezzi rendono possibile ci forniscono analogie concrete della trascendenza di Dio - e immanenza - che possono condurci a nuove profonde visioni e comprensioni della vera natura di Dio e del Regno di Dio in terra.
Le connessioni di un tipico utilizzatore di Facebook, per esempio, - le reali, seppur fugaci interazioni con una moltitudine di persone sparse nel mondo - forniscono una analogia, cioè una istantanea , fugace , piccola immagine di cosa significa essere in comunione con la chiesa cattolica ( = universale) , oltre le barriere dello spazio-tempo.
Il tweet di uno studente palestinese che dice : " ..maledizione , posso sentire i droni IDF ( aerei telecomandati) sopra la mia testa e questo mi rende difficile studiare per il compito in classe di domani.." può generare molta più empatia vera per chi soffre nel mondo che non un mucchio di " evidenze " e analisi. E non c'è bisogno di essere al Cairo per sentire la tensione che c'è lì quando gli amici virtuali mandano un SMS che dice " proprio in questo momento sono in Piazza Tahrir, le forze di sicurezza stanno entrando nella piazza..."
La sempre più interconnessa natura del nostro mondo non cambia l'immutabile natura di Dio ma ci fornisce modelli che possono arricchire la nostra comprensione di Dio stesso.
Un concetto teologico astratto come " Dio è onnipresente" è più facile da visualizzare oggi che possiamo essere ovunque nello stesso momento, anche se solo virtualmente. L'idea che noi cristiani siamo tutti parte dell'universale Corpo di Cristo è più facile da cogliere in questa era in cui tutti siamo interconnessi , un'era che unisce persono che stanno in strada a New York con persone che stanno in cima ad una montagna in India.
Quasi trent'anni fa Dulles si rendeva conto che il mondo stava mutando profondamente e che la Chiesa , con la sua profonda e ricca eredità, poteva essere tentata di " aggrapparsi alle vie dei suoi antenati " e resistere alla chiamata del confronto con il mondo contemporaneo. "
Entrerà la Chiesa con decisione in dialogo con il nuovo mondo che sta nascendo davanti ai nostri occhi? " si chiedeva Dulles , " oppure diventerà sempre più un rudere del passato? ".
Nella nostra epoca globalmente interconnessa tutte le nostre analogie stanno cambiando, e questa può essere una opportunità per visioni più profonde che ci portino più vicini a Dio e più vicini gli uni agli altri.
Cyberteologia : cosa ha in comune la dottrina cristiana con il movimento Open Source ? tratto da
What would Jesus hack?
in : The Economist Sept. 3rd 2011 In un articolo pubblicato da La Civiltà Cattolica intitolato " Etica hacker e visione cristiana " Antonio Spadaro , un prete gesuita italiano , non solo loda gli hackers ma sostiene che il loro approccio alla vita è in qualche modo divino.( Spadaro utilizza il termine hacker nella sua accezione nobile di creatore di codice sorgente ( source code) per software. ) Spadaro argomenta che l'haking (così inteso ) è una forma di partecipazione al lavo
ro divino della Creazione.
Il teologo ha incominciato ad interessarsi degli hackers quando si è reso conto che gli studiosi della cultura hacker e gli hackers stessi usavano " il linguaggio della teologia" quando scrivevano di creatività e produzione di codice . L'etica hacker nata nella Wets Coast americana negli anni '70 e '80 era giocosa, aperta alla condivisione, pronta a sfidare i modelli di controllo proprietario, della competizione e persino della proprietà privata.
Gli hacker sono all'origine del movimento dell'Open Source che crea e ditribuisce software libero: libero nel senso che non costa nulla, è gratuito, e libero nel senso che il codice sorgente del software può essere liberamente modificato da ogni utilizzatore.
"In un mondo dominato dalla logica del profitto , scrive Spadaro, hackers e cristiani hanno " molto da donarsi reciprocamente" in quanto promuovono una visione più positiva del lavoro , della condivisione e della creatività.
Sostenitori cattolici dell' Open Source
hanno fondato un gruppo chiamato Elèuteros che incoraggia la Chiesa a sostenere questo software.
Marco Fioretti, uno dei fondatori del gruppo sostiene che " il software Open Source
insegna la dimensione pratica dell'essere comunità al servizio degli altri contenuta nel messaggio cristiano." Fioretti invita ad usare l'Open Source anche per una ragione morale : molti cristiani usano disinvoltamente software pirata , violando non solo le leggi civili ma il lavoro altrui.
Intervista ad A.Spadaro , cyberteologo.http://www.radiovaticana.org/105/Articolo.asp?c=581838 (intervista a cura di Fabio Colagrande)
“Oggi la grande sfida per la Chiesa non è imparare a usare il web per evangelizzare, ma vivere e pensare bene - anche la fede - al tempo della rete”.
E’ il punto di partenza del saggio “Cyberteologia” (Ed. Vita &Pensiero), pubblicato da Antonio Spadaro sj, direttore della rivista La Civiltà Cattolica.
“Oggi, grazie agli smart-phone e ai tablets, la nostra vita è sempre 'on-line' e la rete cambia il nostro modo di pensare e comprendere la realtà. Perciò, mi chiedo, come cambia la ricerca di Dio al tempo dei motori di ricerca? Chi è il mio prossimo all’epoca del web? Sono possibili la liturgia e i sacramenti sulla rete? ”.
Secondo p. Spadaro, sostenitore della spiritualità della tecnologia, “proprio nella rete Cristo chiama l’umanità ad essere più unita e connessa”. E questa concezione dei mezzi di comunicazione appartiene alla tradizione della Chiesa.
“Quando nel 1931 Pio XI benedisse, in latino, i macchinari della Radio Vaticana – ricorda Spadaro - sottolineò che comunicare le parole apostoliche ai popoli lontani, attraverso l’etere, era un modo per essere uniti a Dio in un’unica famiglia”. Un’intuizione profonda, per l’epoca, che vedeva nella tecnologia della radio non un modo per trasmettere contenuti, fare propaganda, ma un mezzo per creare relazioni, un’unica grande famiglia di credenti. “Potremmo quasi dire – aggiunge Spadaro - che papa Ratti avesse già compreso pienamente la logica dei social networks”.
L’autore prescinde dalle critiche ai social networks, molto frequenti, non solo nel mondo cattolico. “Si tratta di ambienti, in cui si può vivere bene o male – spiega il direttore de La Civiltà Cattolica - dipende dalla qualità delle persone che li frequentano”. “Al di là di ogni considerazione – conclude - va valutato che su Facebook ci sono più di cinquecento milioni di persone, e quindi, soprattutto la Chiesa, non può non esserci. E’ un dato che fa appello alla nostra moralità”.
Di fronte al pregiudizo, duro a morire, di una Chiesa nemica del progresso, Spadaro lancia un'ulteriore provocazione: "proprio noi credenti siamo chiamati a dare al mondo un contributo di lettura teologica del fenomeno della rete, a far capire le vere potenzialità di questo ambiente"
“La questione di Dio nel continente digitale“Di A. Spadaro. www.cyberteolgia.it
Ripropongo qui il testo di mons. Claudio Maria Celli, arcivescovo presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, pubblicato su L’Osservatore Romano il 20 settembre 2012, dal titolo: “La questione di Dio nel continente digitale“ dedicato al magistero pontificio e la sfida delle frontiere della nuova evangelizzazione.
L’Instrumentum laboris, redatto dalla segreteria generale del Sinodo dei vescovi in vista dei lavori della prossima assemblea generale ordinaria, dedica quattro paragrafi (59-62) al tema dei media nel contesto della nuova evangelizzazione, con un titolo assai significativo: «Le nuove frontiere dello scenario comunicativo».
Il documento riconosce che l’attuale mondo della comunicazione «offre enormi possibilità e rappresenta una delle grandi sfide della Chiesa» (n. 59), che le «nuove tecnologie digitali hanno dato origine ad un vero e proprio nuovo spazio sociale, i cui legami sono in grado di influire nella società e sulla cultura» (n. 60) e che «dall’influsso che esercitano dipende la percezione di noi stessi, degli altri e del mondo» (n. 60).
Emerge, quindi, a tutto tondo, la consapevolezza che ci troviamo di fronte a una cultura — i recenti interventi del magistero pontificio parlano appunto di una «cultura digitale» — che è originata dalle nuove tecnologie comunicative e che essa sia una grande sfida per la comunità ecclesiale.
Poiché durante i lavori del sinodo cadrà il cinquantesimo anniversario dell’apertura del concilio Vaticano II, mi sembra non solo interessante ma doveroso ritornare, prima di tutto, al documento fondante della riflessione ecclesiale sugli strumenti della comunicazione sociale, vale a dire il decreto conciliare Inter mirifica, approvato il 4 dicembre 1963.
I padri conciliari, prendendo atto che si tratta di «meravigliose invenzioni tecniche», che «più direttamente riguardano lo spirito dell’uomo e che hanno offerto nuove possibilità di comunicare, con massima facilità, ogni sorta di notizie, idee, insegnamenti» (n. 1), sono anche ampiamente consapevoli di avere a che fare con «strumenti che per loro natura sono in grado di raggiungere e muovere non solo i singoli, ma le stesse moltitudini e l’intera società umana» (n. 1) e che «contribuiscono efficacemente a sollevare e ad arricchire lo spirito, nonché a diffondere e a consolidare il Regno di Dio» (n. 2). In questa prospettiva, il decreto afferma che la Chiesa «ritiene suo dovere servirsi anche degli strumenti della comunicazione sociale per predicare l’annuncio di questa salvezza ed insegnare agli uomini il retto uso degli strumenti stessi» (n. 3).
Questa visione dei media come “strumenti” pervaderà negli anni seguenti il magistero, vale a dire l’istruzione pastorale sulle comunicazioni sociali Communio et progressio pubblicata dalla Pontificia Commissione per le Comunicazioni Sociali, il 23 marzo 1971, l’istruzione pastorale Aetatis novae pubblicata dal Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali — questo è il suo nuovo nome — il 22 febbraio 1992, e i vari interventi del Papa Paolo VI.
Sia sufficiente ricordare, a questo proposito, un significativo passaggio dell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi dove Paolo VI, riferendosi ai mezzi di comunicazione sociale, afferma che «posti al servizio del Vangelo, essi sono capaci di estendere quasi all’infinito il campo di ascolto della Parola di Dio, e fanno giungere la Buona Novella a milioni di persone» (n. 45).
Gran parte del mondo comunicativo cambierà radicalmente con la scoperta e l’ampia diffusione delle nuove tecnologie che, come sottolineano gli esperti, non saranno più solo uno strumento, ma diventano un vero e proprio ambiente di vita.
Saranno i due ultimi Pontefici , il beato Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, a mettere in luce quanto è avvenuto nel campo della comunicazione e a percepire, con lucidità pastorale, le conseguenti sfide e opportunità per l’azione evangelizzatrice della Chiesa.
Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica Il rapido sviluppo (2005), rileva con chiarezza che «i mezzi di comunicazione sociale hanno raggiunto una tale importanza da essere per molti il principale strumento di guida e di ispirazione per i comportamenti individuali, familiari, sociali. Si tratta di un problema complesso, poiché tale cultura, prima ancora che dai contenuti, nasce dal fatto stesso che esistono nuovi modi di comunicare con tecniche e linguaggi inediti» (n. 3).
Sulla stessa linea si pone il magistero di Benedetto XVI quando, nel Messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali del 2009, scrive: «Sentitevi impegnati ad introdurre nella cultura di questo nuovo ambiente comunicativo ed informativo i valori su cui poggia la vostra vita!».
E, riferendosi al delicato tema dei rapporti tra evangelizzazione e nuovi linguaggi, aggiunge: «nei primi tempi della Chiesa, gli Apostoli ed i loro discepoli hanno portato la Buona Novella di Gesù nel mondo greco romano: come allora l’evangelizzazione, per essere fruttuosa, richiese l’attenta comprensione della cultura e dei costumi di quei popoli pagani nell’intento di toccare le menti e i cuori, così ora l’annuncio di Cristo nel mondo delle nuove tecnologie suppone una loro approfondita conoscenza per un conseguente adeguato utilizzo».
Questi testi del magistero, or ora citati, aiutano a comprendere che la missione evangelizzatrice non può trovare la sua piena realizzazione nella sola capacità tecnologica-comunicativa, anche la più moderna e sofisticata.
Anche oggi, credo, siano necessarie audacia e saggezza nel nostro ministero pastorale per trovare altre vie e capacità di usare nuovi linguaggi per evangelizzare in un contesto dove l’uomo è sommerso da messaggi o da non poche risposte a domande che non si era neanche posto.
La tensione nella ricerca della verità, che costituisce la più autentica dimensione della dignità dell’uomo, deve farsi spazio in una molteplicità di informazioni, che assalgono l’uomo odierno nel suo cammino esistenziale.
Si tratta anche della ricerca, a volte sofferta, di Dio e come ricordava Benedetto XVI: «Come primo passo dell’evangelizzazione dobbiamo cercare di tenere desta tale ricerca; dobbiamo preoccuparci che l’uomo non accantoni la questione su Dio come questione essenziale della sua esistenza. Preoccuparci perché egli accetti tale questione e la nostalgia che in essa si nasconde» (Discorso alla Curia Romana, 21 dicembre 2009).
In questo campo giocano un ruolo particolare le nuove tecnologie comunicative che danno origine a una vera e propria cultura, favorendo anche il configurarsi di una società caratterizzata dal fenomeno della globalizzazione.
Giacché la fede prevede un incontro personale con Gesù Cristo, l’azione evangelizzatrice dovrà prestare una attenzione speciale alla concreta e singolare situazione del destinatario dell’annuncio, nel rispetto dell’assoluto primato del rapporto con la persona.
Che linguaggio usare perché Gesù Cristo sia annunciato all’uomo di oggi e possa così interpellare il cuore di ogni essere umano? Penso che questa sia una delle sfide più importanti e urgenti per la missione salvifica della Chiesa nel mondo contemporaneo.
Carattere eminentemente interpersonale dell’evangelizzazione, e testimonianza a tutto campo, sembrano a prima vista due aspetti di questa fondamentale missione della Chiesa in contrasto con quelle che sono le caratteristiche del mondo comunicativo odierno.
La dimensione digitale sembra mal relazionarsi con l’esigenza di concretezza legata al cammino di evangelizzazione, e lo stesso può dirsi della prospettiva globalizzante quasi impersonale della rete che pare essere in stridente opposizione con le necessarie dimensioni personali - parliamo di spirito, di cuore -del rapporto dell’essere umano con Dio in Gesù Cristo.
Non nego che c’è del vero in certe posizioni sospettose e critiche nei confronti delle nuove tecnologie — l’Instrumentum laboris menziona certi limiti al n. 62 — ma è pur vero che esse hanno accresciuto enormemente le capacità conoscitive e relazionali dell’uomo e le reti sociali sono l’ambiente esistenziale di centinaia di milioni di persone.
Quale opportunità e sfida per la comunità di credenti in Cristo, che ha nelle sue mani la parola di vita. Per questo motivo è pressante l’invito che Benedetto XVI rivolgeva nel 2010 tramite il messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali:
«Lo sviluppo delle nuove tecnologie e, nella sua dimensione complessiva, tutto il mondo digitale rappresentano una grande risorsa per l’umanità nel suo insieme e per l’uomo nella singolarità del suo essere e uno stimolo per il confronto e il dialogo. Nessuna strada, infatti, può e deve essere preclusa a chi, nel nome del Cristo risorto, si impegna a farsi sempre più prossimo all’uomo. I nuovi media, pertanto, offrono innanzitutto ai Presbiteri prospettive sempre nuove e pastoralmente sconfinate, che li sollecitano a valorizzare la dimensione universale della Chiesa, per una comunione vasta e concreta».
Credo che il Papa sia pienamente consapevole dei limiti delle nuove tecnologie e di certe influenze negative da esse esercitate specialmente sul mondo giovanile, eppure non le teme, anzi invita la Chiesa «ad esercitare una “diaconia della cultura”, nell’odierno “continente digitale”.
Con il Vangelo nelle mani e nel cuore, occorre ribadire che è tempo anche di continuare a preparare cammini che conducano alla Parola di Dio, senza trascurare di dedicare un’attenzione particolare a chi si trova nella condizione di ricerca, anzi procurando di tenerla desta come primo passo dell’evangelizzazione».
E la riflessione pontificia giunge a prospettare la messa in opera di una «pastorale nel mondo digitale», che è chiamata «a tener conto anche di quanti non credono, sono sfiduciati ed hanno nel cuore desideri di assoluto e di verità non caduche, dal momento che i nuovi mezzi consentono di entrare in contatto con credenti di ogni religione, con non credenti e persone di ogni cultura».
Proseguendo in questa linea il Papa si chiede — usando un’immagine audace ma significativa — se il web non possa fare spazio — come il cortile dei gentili, del Tempio di Gerusalemme — anche a coloro per i quali Dio è ancora uno sconosciuto (cfr. messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, 2010).
I testi del magistero papale or ora ripercorsi sono parole pastoralmente illuminanti che possono aiutare, alla vigilia dei lavori del prossimo Sinodo, a riflettere con «audacia e saggezza», sulla grande sfida che le nuove tecnologie comunicative pongono nel cammino di evangelizzazione, percependone anche le grandi opportunità.
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