Corso di Religione

RELIGIONI IN DIALOGO

CARCERE E PERDONO
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Il perdono nella tradizione ebraica source : http://www.confronti.net/confronti/2018/09/ 13 settembre 2018 di Ariel Di Porto (Rabbino capo della comunità ebraica di Torino)

Nel suo Girasole, Simon Wiesenthal pone una domanda estremamente lacerante: come ci si deve comportare di fronte alla richiesta di perdono di una SS morente? L’autore scrive: «Io avrei dovuto perdonargli? O potuto perdonargli? E gli altri avrebbero dovuto o potuto farlo? Oggi il mondo ci chiede di perdonare anche a quelli che con il loro atteggiamento continuano a provocarci… è un problema che sopravviverà a tutti i processi, e continuerà a porsi anche quando i delitti dei nazisti già da tempo saranno ormai ricordi di un lontano passato. Per questo lo propongo a uomini che credo abbiano una loro parola da dire… Perché le vicende che lo hanno generato possono ripetersi…. So che molti mi comprenderanno e approveranno il mio comportamento verso la SS morente. Ma so pure che altrettanti mi condanneranno per non aver aiutato un assassino pentito a chiudere gli occhi in pace».

In filosofia morale e in teologia quello del perdono è uno dei concetti fra i più complessi e studiati. La stessa definizione di perdono è oggetto di disputa: alcuni lo considerano un concetto quasi legale, altri ritengono che sia uno stato emozionale per il quale chi è stato offeso rinuncia al proprio risentimento nei confronti di chi ha offeso. Anche il proposito che il perdono persegue è dibattuto: chi perdona vuole riconciliarsi con chi ha offeso a livello personale, o permettergli di entrare nuovamente a far parte della società?

All’interno della concezione del perdono ebraica è possibile individuare tre elementi distintivi, che la differenziano da quella cristiana – secondo la quale non è indispensabile che chi ha offeso si penta e prescinde dalla gravità della colpa – : l’obbligo di perdonare è sottoposto al pentimento e alla richiesta di persona da parte di chi ha compiuto l’offesa; non tutte le colpe possono essere perdonate; non è possibile perdonare a nome di qualcun altro.

Nel Girasole il filosofo Avraham Yehoshua Heschel, rispondendo alla domanda posta da Wiesenthal, narra una storia riguardante il Rebbe di Brisk, studioso famoso e rinomato. Una volta, mentre viaggiava in treno, egli subì un’offesa da una persona chiassosa, che con i propri comportamenti lo sbatté letteralmente fuori dallo scompartimento. Scendendo alla fermata di Brisk, l’incauto passeggero assistette all’accoglienza solenne riservata al grande rabbino. Realizzò in quel momento quale terribile errore aveva commesso e chiese immediatamente perdono per le malefatte; dopo il rifiuto ricevuto da parte del rabbino, arrivò persino a offrire un’ingente somma di denaro per riparare al danno. Il rabbino respinse anche quest’ulteriore tentativo; un atteggiamento a lui estraneo, tanto più che era considerato essere una persona mite e paziente. Il figlio del rabbino, non comprendendo la durezza dell’atteggiamento del padre, ma al contempo non potendolo lì per lì riprendere, si presentò nei giorni successivi da lui in ufficio. Dopo un po’ trovò il coraggio e fece riferimento all’episodio del treno, chiedendo finalmente al padre il perché si fosse mostrato così perseverante nel respingere ogni tentativo di scusa. Il padre rispose allora che quell’uomo in treno non sapeva chi egli fosse, e mancò quindi nei confronti di una persona comune: avrebbe dovuto pertanto chiedere perdono proprio a quella persona comune, e non a lui, rinomato rabbino.

Nella tradizione biblica il pentimento prende le mosse da uno stato interiore al quale deve necessariamente seguire una traduzione nella pratica, composta da due stadi: quello della cessazione del male da una parte, seguito dall’altra da quello di esecuzione del bene. Scrive Rav Riccardo Di Segni a tal proposito: «Il perdono è una riparazione morale dell’identità; è l’acqua che cancella la macchia della colpa e che spegne il fuoco del rancore. Se è unilaterale e gratuito, nel senso che chi ha offeso non fa nulla per ottenere il perdono, questo spegne il fuoco del rancore ma non toglie la macchia. Il perdono, come processo morale, non elimina la necessità della sanzione, che deve servire a riparare il danno procurato, a creare un deterrente nella società e anche ad aiutare il colpevole a riflettere sul male compiuto». È necessario a mio parere avviare una seria riflessione sui dispositivi attualmente in uso e sulla loro efficacia. Nella legislazione che emerge dal testo biblico non troviamo nulla che richiami i metodi in voga nel mondo moderno, che rischiano spesso di compromettere ulteriormente situazioni già difficili di per sé.
La varietà e la frequenza delle espressioni che troviamo nella Bibbia per descrivere il processo di pentimento non possono far altro che indicarci quanto esso sia centrale. Ed è riassumibile nel rapporto con la divinità, in particolare cogliendo la radice ebraica SH-U-V (tornare), dalla quale deriva il termine ebraico che designa il pentimento (teshuvah), che è ritorno a D.

Secondo la tradizione ebraica, il piano divino e quello umano, relativamente al perdono, rimangono nettamente distinti: il perdono divino infatti riguarda unicamente quei peccati che l’uomo compie nei Suoi confronti (ben adam laMaqom); i peccati rivolti verso altri esseri umani (ben adam lachaverò) non vengono perdonati sino a quando colui che è stato offeso abbia perdonato a sua volta. Da qui l’uso di chiedere perdono al proprio prossimo, elemento indispensabile per l’espiazione delle colpe, la vigilia del digiuno del Kippur.

D’altro lato chi è stato offeso non deve essere eccessivamente duro. Infatti «chi si comporta con clemenza nei confronti del proprio prossimo sarà trattato con clemenza dal Cielo; chi non si comporta con clemenza nei confronti del proprio prossimo non sarà trattato con clemenza dal Cielo» (TB Shabbat 151b). Se la parte offesa rifiuta per tre volte in presenza di altri di concedere il perdono, diviene lui il peccatore (Tanchumà Chuqqat 19) ed è chiamato “crudele”. Inoltre questo atteggiamento non è considerato degno di un discendente di Abramo (TB Betzah 32b), poiché questa è una delle caratteristiche che distinguono Abramo e la sua stirpe (Bemidbar Rabbà 8,4; Rambam, Hilkhot teshuvah 2,10).
La Shoah ha accentuato con forza la discussione riguardo la posizione ebraica rispetto al perdono, trattandosi di un caso limite, caratterizzato da crimini tanto gravi e efferati da considerare l’eventualità che vi sia una proibizione morale a perdonare. Vi sono due ordini di ragioni per non perdonare: una di ordine metafisico, per cui non è possibile perdonare; e una di ordine morale, per cui non dovremmo perdonare. Solo chi ha subito un’offesa può perdonare, e la maggior parte delle vittime sono morte. Il perdono operato da terzi non può sostituire quello delle vittime.

In questo caso vi è una ulteriore difficoltà, collegata al fatto che, secondo la definizione di Hannah Arendt, i nazisti hanno commesso «un crimine contro l’umanità sul corpo degli ebrei»: la Shoah è un crimine troppo grande per essere perdonato, i cui esecutori hanno superato abbondantemente il limite della “perdonabilità”. Un’altra obiezione dipende dall’assenza di pentimento da parte dei criminali. Emmanuel Levinas, la cui biografia è dominata dal ricordo dell’abominio nazista, scrive:

La responsabilità dell’uomo verso l’uomo è tale che D. non può annullarla. Ecco, secondo il commento rabbinico, il dialogo fra D. e Caino: Sono il guardiano di mio fratello? Non è una domanda semplicemente insolente. Essa proviene da colui che non ha ancora sentito la solidarietà umana e che pensa […] che ciascuno esista per sé e che tutto è permesso. Ma D. rivela all’omicida che il suo crimine ha sovvertito l’ordine naturale. La Bibbia mette allora in bocca a Caino una parola di sottomissione: “Il mio crimine è troppo grande per essere sopportato”. I rabbini fingono di leggere in questa risposta una nuova domanda: “il mio crimine è troppo grande per essere sopportato?”. È troppo pesante per il Creatore che porta la terra e i cieli? […] Come è possibile? L’Eterno non ha forse cancellato il peccato del vitello d’oro? E il maestro risponde: “la colpa commessa verso D. ha a che fare con il perdono divino, la colpa che offende l’uomo non ha a che fare con D.”. […] Il male non è un principio mistico che si può cancellare con un rito: è un’offesa che l’uomo fa all’uomo. Nessuno, nemmeno D., può sostituirsi alla vittima. Il mondo in cui il perdono è onnipotente diviene inumano.
(Emmanuel Lévinas, Difficile libertà, Jaca Book, Milano 2004)

Ciò che dobbiamo cercare di fare pertanto, partendo dalla nostra vita ordinaria, è anzitutto coltivare la nostra umanità, pro-muovendo, in ogni manifestazione della nostra esistenza, quella solidarietà umana che è alla base di ogni società sana.


Peccato e misericordia nel Corano [pubblicato su Confronti 9/2018] di Shahrzad Houshmand Zadeh (Teologa, collaboratore esperto linguistico di persiano all’Università la  Sapienza, membro della consulta femminile presso il Pontificio Consiglio della Cultura)

Il Corano si presenta come un libro il cui scopo non è negare la Bibbia, ma – al contrario – confermare (musaddiqan) e proteggere (muhaiminan) la parola rivelata di Dio nella Torah come nel Vangelo. Si legge : «E facemmo seguir loro Gesù, figlio di Maria, a conferma della Torah, rivelata prima di lui e gli demmo il Vangelo pieno di retta guida e di luce, confermante la Torah rivelata prima di esso, retta guida e ammonimento ai timorati di Dio. Giudichino dunque la gente del Vangelo secondo quel che Dio ha ivi rivelato, che coloro che non giudicano secondo quel che Dio ha rivelato, sono i perversi. E a te abbiamo rivelato il Libro che contiene la verità a conferma del Libro precedente e a loro protezione… A ognuno di voi abbiamo dato una legge e una via. Se Dio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una sola comunità. Non ha fatto per provarvi mediante ciò che vi ha dato. Gareggiate dunque in opere buone! Ritornerete tutti a Dio ed egli vi farà conoscere ciò su cui siete discordi» (Il Corano 5:46-49).

L’unico creatore e Dio dell’universo, Colui che sussiste a ogni essere vivente, l’inizio e la fine, viene appellato con diversi nomi: al-Awwal e al-Akhir, l’Apparente e il Nascosto; al-Zahir e al-Batin, il Vicino; al-Qarib; al-Rahim, il Misericordioso; al-Hayy, il Vivo e al-Rahman, l’Amore.

IL CONCETTO DI “PECCATO”

I dieci comandamenti vengono riconfermati dalla religiosità islamica, conseguenza logica, per un testo – Il Corano – che si presenta una conferma e una “protezione” per la Bibbia. Sono diversi quegli atteggiamenti e atti che vengono  presentati come negativi, ovvero “non amati da Dio”. Qui di seguito alcuni esempi.

Al-israf, dissipatezza, sperpero. La Vita è un dono gratuito e meraviglioso, godersela in gioia e pace e in condivisione è un bene, ma il consumismo cieco ed egoistico è un peccato: «È Dio che fa crescere giardini con pergolati e senza pergolati, palme e cereali che danno frutti diversi e ulivi e melograni simili per foglie e dissimili per frutti. Mangiatene i frutti quando maturano e date ai poveri la parte che loro spetta nel giorno del raccolto, ma non esagerate in prodigalità, perché Dio non ama i prodighi» (Il Corano 6: 141).

Al-fisad, corruzione. L’essere umano ha avuto la totale fiducia dal Creatore, la terra, la giustizia sono state  affidate nelle sue mani. Khalifa, che letteralmente significa “il successore”, è il ruolo che il Corano offre all’essere umano come luogotenente di Dio sulla terra (Il Corano 2:30). Si legge: «Con i beni che Dio ti ha dato cerca piuttosto di procurarti la dimora dell’altra vita. Non dimenticare il tuo dovere in questo mondo, sii buono con gli altri come Dio è stato buono con te e non cercare di portar corruzione sulla terra, perché Dio non ama i corruttori» (Il Corano 28, 77).

Al-ya’s, disperare della misericordia di Dio. Nel capitolo (sura) del Corano intitolato a Giuseppe, troviamo un insegnamento di speranza oltre tutte le difficoltà. Il profeta Giacobbe non vede il suo amato figlio Giuseppe oramai da troppi anni e gli altri figli ne hanno annunciato la morte certa. E invece Giacobbe, nonostante tutto, spera ancora di rivedere il figlio vivo, non perde mai la speranza nella misericordia divina, divenendo un esempio da seguire. Secondo il Corano, disperare dell’amore di Dio è un peccato vero e proprio. Giacobbe si allontanò quindi da loro dicendo: «Che dolore provo per Giuseppe!» E gli si offusco la vista per il dolore che cercava di reprimere. Gli dissero allora i figli: «Per Dio! Continuerai a pensare a Giuseppe fino a rovinarti la salute e morire!» Rispose: «Mi lamento della mia afflizione e angoscia solo con Dio, che mi ha fatto conoscere ciò che voi non sapete. O figli miei, andate e cercate di Giuseppe e di suo fratello e non disperate della misericordia di Dio, perché della misericordia di Dio non disperdano che i miscredenti»
(Il Corano 12: 84-88).

LA “PENA” NELL’SLAM

L’islam, da religione monoteista, ha una elaborazione del concetto di pena simile all’ebraismo e al cristianesimo. Il Corano parla del paradiso e dell’inferno come conseguenza della libertà dell’operato di ciascun individuo. «In verità, coloro che avranno tormentato i credenti e le credenti e non si pentiranno, avranno il tormento d’inferno, avranno il tormento del fuoco bruciante. Ma coloro che avranno creduto e operato il bene avranno giardini alla cui ombra scorrono i fiumi.

Egli è colui che produce e riconduce, ma è colui che perdona e che ama» (Il Corano 85:10-15). L’essere umano ha la libertà di operare, scegliere ed agire. Può liberamente produrre pace, armonia, gioia, bene per sé e per chi lo circonda, oppure corrompere, distruggere, e far diventare un inferno la propria vita e quella degli altri e, in queste due direzioni, non ha quasi limiti. «In verità Noi abbiamo creato l’uomo da sperma mescolato, per metterlo alla prova, e gli abbiamo dato l’udito e la vista. Noi l’abbiamo guidato per la retta via, sia che Ci si mostri grato, sia che Ci si mostri ingrato» (Il Corano 76, 3).

È interessante notare che la guida verso la retta via secondo la logica coranica è insita nella natura stessa di ogni individuo umano ma, proprio perché è libero di operare e scegliere, esso può percorrerla oppure no. Siccome la vita è perfetta e precisa, ogni atto seminato produrrà il proprio frutto, come è giusto che sia: «in quel giorno verranno gli uomini a frotte affinché gli siano mostrate le loro opere. E chi ha fatto un grano di bene lo vedrà. E chi ha fatto un grano di male lo vedrà» (Il Corano 99: 6-8).

Nella narrazione coranica l’origine del male, e la sua origine, non avviene nel giardino dell’Eden, ma ancor prima. Il male, inoltre, non è originato dall’essere umano, ma da un angelo, che in mezzo ai puri ha incrinato il pacifico ordine celeste: Satana! Egli è il superbo, colui che non obbedisce al comando di Dio di  inchinarsi davanti alla meraviglia della  creazione, e quindi anche dell’essere umano. Solo dopo questo atto, gli uomini  che lo seguiranno saranno essi stessi nel peccato. (vedi Il Corano 7: 12).

Questa narrazione, ha due importanti conseguenze:
1) Il peccato originale non è opera dell’uomo, ma di Satana. Questa visione, indica la misericordia di Dio verso l’uomo e conferma la bontà iniziale dell’essere umano, che nasce puro e buono. Per questo, nell’islam, non è necessario il battesimo iniziale che purifichi da una colpa pregressa.  Il vero sforzo dell’essere umano è – quindi – non seguire l’inganno di Satana, custodendo la bontà innata in se stesso (al-Taqwa);
2) la prima e la più pericolosa delle colpe è la superbia, la radice di quasi tutti i mali. Le violenze, la corruzione, le ingiustizie operate sia al livello individuale che collettivo vengono giustificate, sempre da chi attua tali misfatti, dall’idea di “meritare di più” rispetto agli altri.

I NOMI DELLA MISERICORDIA

Sono diversi nomi di Dio che, all’interno del testo sacro dei musulmani, indicano la misericordiosa (al-‘afoww), il perdono (al-ghafur), la clemenza (al-karim), l’indulgenza (al-rahim) e la grazia (al-tawwab).

È vero che è giusto rispondere all’ingiustizia con una condanna e una pena, tuttavia il Corano ricorda all’essere umano:
a) che nessuno raggiunge il bene o può purificarsi senza la grazia di Dio: «se non fosse per il favore di Dio su di voi e la Sua misericordia, di voi neppure uno sarebbe puro giammai, ma Dio purifica chi vuole e Dio è ascoltatore sapiente» (Il Corano 24:21).
b) Dio perdona le colpe, anzi, può anche trasformarle in bene: «E quando vengono da te quelli che credono ai nostri segni, di’: “La pace sia con voi”. Il Signore ha prescritto a Se stesso l’Amore. Per chiunque di voi commette un male per ignoranza e poi si pente e si ravvede, Egli allora è Perdonatore e Misericordioso» (Il Corano 6, 45). c)

Non esiste nessuna colpa che non possa essere perdonata da Dio: «O miei servi! Voi che avete commesso eccessi contro le vostre anime, non disperate della misericordia di Dio, Dio perdona tutte le colpe. Si, Egli è il Clemente, il Misericordioso» (Il Corano 39: 53). d) Chi vuole essere perdonato da Dio, perdoni il suo prossimo: «Non giurino, coloro che posseggono mezzi e sostanze, di non dar più nulla ai parenti, ai poveri e agli emigranti sulla via di Dio; perdonino anzi e condònino: non amereste anche voi esser perdonati da Dio? Dio in verità è perdonatore, indulgente» (Il Corano 24: 22). e)

La grande rivoluzione umana, sociale, culturale e spirituale è  poter perdonare e rispondere con il bene ad un male subìto.  La logica coranica, tenendo conto della reale presenza del male, indica il perdono come il vero motore della trasformazione individuale e collettiva:

«Il bene non è uguale al male. Respingi questo con ciò che vi è di più buono e bello (ahsan), colui che l’inimicizia separava da te diverrà un amico fervente! Ma ciò non lo raggiungeranno tranne coloro che sono pazienti, e ciò non lo raggiungeranno tranne chi possiede una virtù considerevole e grande (Il Corano 41: 34 e 35).

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