Corso di Religione

RELIGIONI IN DIALOGO

CARCERE E PERDONO
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Colpa, pena e perdono: la prospettiva induista [pubblicato su Confronti 9/2018] di Sundari Devi (Psicologa psicoterapeuta, membro della commissione Scuola e formazione dell’Unione induista italiana)

Colpa, pena e perdono soggiacciono tutti a un principio di giustizia da cui si trae ispirazione o da cui si devia. Tale idea di giustizia costituisce l’ossatura dell’induismo come testimonia la sua definizione tradizionale: sanatana dharma.

Dharma, tra i suoi molti significati, traduce anche “norma”, “ordine”. È la norma universale che sottende i fenomeni alla base dell’ordine cosmico, detto rtam; è l’intelligenza divina che sostiene la manifestazione nelle sue leggi naturali di ordine fisico, così come in quelle relazionali e etiche.

Il dharma ha un carattere multidimensionale; vi è un ordine generale e eterno che comprende quelle virtù sempre valide indipendentemente dal tempo o dal luogo, quali la nonviolenza, la verità, l’amore, la compassione, il principio del donare e di partecipazione alla vita. A questo dharma generale se ne affiancano numerosi altri specifici, relativi alla condizione che ciascun essere umano vive, al proprio ruolo nella società e alle proprie attitudini. In sintesi, il dharma costituisce il codice dei diritti e doveri di ciascuno; rappresenta la guida per l’azione, la discriminante fra il giusto e l’errato in ciascun comportamento.

È nel concetto di unità, di identità con tutto l’esistente, che sta la radice del bene e, al contrario, nel concetto di separazione che sta la radice del male, adharma. Il male nell’induismo non ha realtà ontologica, ma nasce dall’ignoranza (avidya) della vera natura di ogni essere, ed è dalla conoscenza della realtà che nasce la possibilità dell’emancipazione dal vincolo e della piena identità con il Divino.

Date queste premesse si evince che la condizione umana, finché vi è identificazione con l’ego, è soggetta a errore. Motivo per cui

le Scritture e gli insegnamenti dei maestri sottolineano l’importanza di una giusta condotta (sadachara) e di una buona compagnia (satsangha). Deviare da questi due “binari guida” comporta il rischio di sbagliare e inevitabilmente di soffrire o di far soffrire altri in un tempo più o meno breve.
Ciò si incardina sulla legge di causa-effetto, il principio di responsabilità dell’azione che include anche il libero arbitrio: ciò che mi accade è frutto delle mie azioni passate, ma è mia libertà l’atteggiamento con cui giocare le carte che la  vita mi ha messo in mano modificando così progressivamente il presente e il futuro.

Tenendo saldo il rispetto delle leggi dello Stato in cui ci si trova a vivere, il reato chiama in campo due fattori principali: la pena e il perdono. Nelle Scritture si menzionano diverse forme di espiazione, prayascitta; tra queste il pellegrinaggio ai luoghi sacri, il digiuno, la preghiera, rituali specifici, la detenzione, e altre. In questa ottica è importante la sequenza del rendersi conto dello sbaglio o dispiacere per la sofferenza prodotta, per poi chiedere scusa (o riparare, per quanto possibile, in maniera diretta o indiretta) per produrre un cambiamento al fine di non ripetere più l’errore.

La trasformazione radicale dal peccato alla santità non è nuova nella storia delle religioni. Molti santi ebbero trascorsi di delinquenti o addirittura di assassini, eppure seppero da queste gravi colpe cogliere lo stimolo a cambiare radicalmente la propria vita e dirigerla verso Dio. Ne è un esempio eccelso il saggio Valmiki. Da ladro e assassino qual era si sottopose a un’austerità estrema, fino a purificare ogni suo errore, divenendo un grande saggio dall’animo puro e nobile.

Nell’uomo comune, se il pentimento è autentico, sarà lo stesso autore del reato a volersi purificare dalla sua azione scorretta e l’accettazione del carcere è un modo per incominciare a pagare il proprio debito. La sofferenza della privazione della libertà e dell’allontanamento dalla propria vita, dagli affetti e dalla comunità di appartenenza, se affrontata in modo consapevole, può trasformarsi in opportunità.

La pena ha e deve sempre mantenere il fine di educare o di rieducare, anche attraverso il lavoro, ai valori del dharma, della nonviolenza, i quali fra l’altro sono trasversali a tutte le religioni e anche ai non credenti. Il lavoro diviene anche un mezzo attraverso cui poter restituire, in senso lato, ciò che il colpevole ha “tolto” alla società.

Ovviamente è importante la creazione di una relazione umana, tra operatore carcerario e detenuto, fatta di rispetto, di capacità di entrare nel “linguaggio” della persona per condurla in questa presa di coscienza, restando attenti alle trappole del buonismo, del giustificazionismo, dell’attribuzione della “colpa” alla fantomatica società, in quanto – pur esistendo ovviamente condizioni di vita più o meno favorevoli – la responsabilità delle azioni è individuale e individuale ne è la soluzione, compresa la volontà di trarre giovamento dall’aiuto offerto al miglioramento di se stessi.

L’induismo poi ha a sua disposizione anche lo yoga; se approcciato nella sua autentica matrice filosofica e spirituale, offre un cammino di consapevolezza, di presenza mentale innanzitutto nel corpo e poi nel respiro, per orientare successivamente la psiche alla purificazione delle impressioni inconsce.

LE CARCERI

Affinché ciò possa avvenire è necessario che gli Istituti di detenzione abbiano sempre a cuore la dignità della persona; permettano di mostrare dei modelli di buon comportamento e attuino il principio di etica della cura così ben insegnato dal Mahatma Gandhi. Se la colpa fosse simile a una malattia, la medicina deve consistere di ascolto, fermezza, disciplina, compassione per la comune condizione di perfettibilità, ma soprattutto di perdono.

Lo stesso dicasi per le vittime e le loro famiglie. Il processo del perdono è un po’ più facile se si vede nel “carnefice” il percorso di cambiamento a cui abbiamo più sopra accennato, ma anche in questo caso è un cammino che richiede del tempo. I perdoni immediati da intervista televisiva sono poco credibili, a meno che il diretto interessato non sia un illuminato che ha già realizzato il senso della vita! Aver subìto una perdita ad opera della cattiva volontà altrui mette in gioco processi psicologici profondi: la propria sofferenza e quella delle persone amate, gli attaccamenti anche materiali, il senso della giustizia e dell’ingiustizia, le credenze spirituali. Il risentimento, intriso di dolore, di rabbia e di paura, è la reazione umanamente più naturale, ed è solo con un delicato lavoro di trasformazione che è possibile arrivare al perdono.

Talvolta, infatti, la consapevolezza del male inferto quindi della propria colpa da parte del detenuto costituisce la condanna più grande, perché se è vero che perdonare un altro può essere difficile, perdonare se stessi può risultare impossibile. La ferita, di chi è davvero pentito, resta come un solco indelebile nel cuore. Il perdono libera “vittima” e “carnefice” dal rancore, il quale fra l’altro penalizza entrambi.

Infine, anche per la vittima la sofferenza può trasformarsi in una preziosa opportunità di miglioramento di se stessi attraverso l’attribuzione di un senso positivo, per quanto doloroso e difficile, a un’esperienza negativa. Si può diventare più forti e più in grado di aiutare ad esempio chi ha vissuto vicende simili, accettando la propria storia e trasformandola in un’opportunità di crescita.


«Il perdono è una virtù; è sacrificio, è il Veda […]; il perdono è Dio stesso; è verità; […] è santità; è dal perdono che tutto questo universo è tenuto insieme». (Mahabharata, III.29).
Una prospettiva buddhista: il Liberation prison project [pubblicato su Confronti 9/2018] di Maria Grazia Sacchi (Liberation prison project italia – www.liberationprisonproject.it)

I principi fondanti del buddhismo costituiscono una visione ed un’interpretazione della sofferenza umana, dukka, di cui l’intera umanità è permeata. La metafora della malattia e del medico curante esprime bene l’impostazione del buddhismo nei confronti della sofferenza: «Considera te stesso come malato, il Buddha come tuo medico e il dharma la medicina per guarire». In tal senso, è possibile individuare le “malattie” basilari di cui la mente è afflitta (desiderio, rabbia, ignoranza) e le loro derivazioni sociali, quali l’ingiustizia politica ed economica, la guerra, la violenza, il degrado ambientale.

PER UN BUDDHISMO IMPEGNATO NEL SOCIALE

Nell’ambito della pratica e degli studi buddhisti si è diffusa da parecchi anni una corrente di buddhismo impegnato nel sociale (di cui Thich Nhat Hanh è stato promotore relativamente al dramma vietnamita), dove si collocano varie forme di attivismo sociale in differenti ambiti. Tutto ciò muove dalla convinzione che nel mondo attuale la pratica buddhista non può consistere solo in fattori di miglioramento individuale come la cura della propria mente e la moralità personale: il singolo individuo non può essere separato dal complesso di ruoli e relazioni che condizionano la propria vita nel mondo.

Di qui la necessità di praticare anche in termini di responsabilità sociale. Le tradizionali forme di pratica per la liberazione dalla sofferenza, le “nobili verità”, l’“ottuplice sentiero”, la meditazione, divengono quindi un presupposto e indispensabili vie di progresso spirituale affinché l’azione sociale possa essere efficacemente intrapresa; ma questa azione va ad esse aggiunta se si vuole che la sofferenza nella vita propria e degli altri sia realmente almeno alleviata.

Nel buddhismo impegnato trova la sua più completa espressione la compassione, intesa proprio come compassione in azione. «Proprio come tu ami riflettere su ciò che è utile fare per te, così dovresti amare la riflessione su ciò che è utile fare per gli altri… i ciechi, gli ammalati, gli umili, i non protetti, i diseredati e gli storpi hanno eguale dirittoa avere cibo e bevanda» (Nagarjuna, Ghirlanda dei gioielli di consigli reali).

In tal senso, è evidente la dimensione transculturale e transreligiosa del messaggio buddhista; così come Nagarjuna parla di beni materiali, primari, cibo e bevande, allo stesso modo, in epoca contemporanea, Lama Ciampa Monlam indica e sostiene la dimensione del prendersi cura delle persone in difficoltà: «Il denaro o il cibo sono doni che hanno un tempo e a un certo punto finiscono. Gli insegnamenti sulla consapevolezza e sull’etica sono doni che non hanno tempo, durano per sempre nella mente di chi li riceve».

IL LIBERATION PRISON PROJECT

Liberation prison project nasce negli Stati Uniti d’America nel 1996 dalla monaca buddhista Robina Courtin che ha poi contribuito alla sua diffusione in Australia, Mongolia, Messico, Nuova Zelanda e in Europa. Robina, in seguito a un contatto con una persona detenuta, inizia a occuparsi di carcere di massima sicurezza, a introdurre pratiche meditative fra i detenuti e fonda un movimento che ben presto si diffonderà in varie nazioni del mondo in forme e modalità applicative differenti in base alle esigenze socioculturali.

IL PROGETTO IN ITALIA

Nel 2009 in Italia si struttura un primo nucleo di volontari che sperimentano l’applicabilità del progetto in alcuni Istituti penitenziari, sino alla fondazione della Onlus Liberation prison project Italia nel 2013. Il principio fondante della Onlus si radica nel dettato costituzionale secondo il quale la pena detentiva deve avere una finalità riabilitativa (art. 27 della Costituzione); in tal senso è possibile fornire strumenti atti a alleviare la sofferenza esistenziale delle persone detenute, utilizzando nel modo migliore il periodo della carcerazione.

È evidente che non si tratta di un messaggio religioso, né tantomeno di una forma di proselitismo: la Onlus non è quindi equiparata ad altre associazioni di stampo religioso, né gli operatori ai ministri di culto, anche se a volte si tratta di monaci. Il messaggio trasmesso è totalmente laico e basato sull’etica secolare tanto sottolineata dal Dalai Lama. Come dice Robina Courtin, non si tratta di far diventare le persone buddhiste, ma persone migliori. Il carcere è un luogo difficile, un luogo che può peggiorare forme afflitte della mente, o produrle: è un luogo che ammala.

È certo che se il tempo della detenzione viene sfruttato per lavorare sul piano introspettivo e dell’autotrasformazione, al termine dello stesso, la consapevolezza acquisita e la comprensione delle dinamiche mentali riducono o annullano il rischio della recidiva. In tal modo il rischio sociale tende a diminuire e la finalità dei percorsi promossi diviene da individuale a socio-collettiva.

La consapevolezza è quindi di per sé trasformativa: quando un individuo detenuto o in libertà acquisisce gli strumenti di base ne consegue necessariamente una miglior qualità della vita, maggior benessere e salute psicofisica. Tale miglioramento può ricadere anche all’interno degli Istituti penitenziari stessi creando ambienti meno aggressivi e meno punitivi, con uno standard di relazioni più umane sia tra persone detenute che nei confronti del personale specialistico e della polizia penitenziaria.

La Onlus opera negli Istituti penitenziari con persone detenute e dipendenti (personale giuridico-pedagogico e agenti di polizia penitenziaria) e all’esterno con persone tornate in libertà. All’interno del carcere gli operatori della Onlus organizzano gruppi ed incontri individuali con le persone detenute. I contenuti degli incontri si delineano all’interno dell’epistemologia buddhista, con riferimenti spirituali e scientifici relativi alle caratteristiche dei fenomeni universali, alla conoscenza della mente e del sistema corpo-mente, delle principali afflizioni e della loro gestione.

All’interno di questo vasto contenitore, ogni gruppo si differenzia sia in base alle specificità proprie e dell’Istituto che alla formazione del conduttore. La linea comune, presente ovunque, è il richiamo continuo alla consapevolezza, alle pratiche che la sostengono e alla meditazione, condotta e trasmessa secondo metodologie differenti, sempre in relazione alla tipologia dei partecipanti e all’esperienza del conduttore.

I CORSI NEGLI ISTITUTI DI PENA

I corsi si presentano come lavori sulla salute mentale, come rimedio o come prevenzione a quei particolari stati psicopatologici che si evidenziano in ambiente penitenziario. Le diversità dei soci operatori della Onlus divengono una ricchezza e si complementano graziea un continuo coordinamento e confronto. Le tematiche dei percorsi vengono redatte con un progetto di massima, scritto e accordato con la Direzione e con l’educatore di riferimento in seguito a alcuni incontri di conoscenza; nella scelta dei temi si lascia ampio spazio all’emergere dei bisogni dei partecipanti e alle riflessioni riportate. I gruppi, sempre a cadenza settimanale, si strutturano con percorsi aperti o chiusi, con una durata temporale o continuativi; date le particolari caratteristiche del contesto, si è preferito non basarsi su format prestabiliti (mindfulness) che rimangono comunque come modelli di ispirazione.

Laddove è possibile relativamente al background del conduttore, è inserito un lavoro sul corpo tramite pratiche di yoga. In parallelo agli incontri di gruppo vengono affiancate sedute individuali di counseling o di sostegno terapeutico, sempre in base alla formazione di chi conduce; le sedute individuali sono condotte anche con persone che non partecipano ai gruppi. La risposta delle persone detenute è sempre stata molto positiva, in carcere il bisogno di curare l’anima, di ascoltare parole di consapevolezza e di etica è molto forte: sono altrettanto forti e frequenti le trasformazioni delle menti. Dopo mesi di partecipazione motivata ed attenta si rimane ancora meravigliati per quanto anche la mente più disturbata, più arrabbiata, più distruttiva possa trasformarsi e divenire a sua volta esempio per altre persone.

I gruppi non hanno una durata specifica, proseguono con uno scambio di persone che terminano il periodo detentivo e che si susseguono, consigliando i compagni alla partecipazione: le tematiche affrontabili sono molteplici e, in qualche modo, non si esauriscono mai. Si riportano in seguito alcune fra le linee contenutistiche seguite.

Le “tecniche” per la scoperta delle risorse interiori L’utilizzo della consapevolezza e delle tecniche meditative nell’incontro con le emozioni distruttive loro gestione e scoperta delle risorse interiori:
1) I veleni della mente: attaccamento, rabbia ed ignoranza. Come riconoscerli e quali antidoti applicare.
2) Gli impedimenti alla consapevolezza nella vita quotidiana in reparto.
3) La consapevolezza dell’esistenza della sofferenza e della sua genesi: rompere le catene del male
4) Reati e meccanismi di identificazione nel ruolo; l’avvio del processo di dis-identificazione.
5) Pratiche di consapevolezza e meditazione sui fantasmi del passato e del futuro (colpe e rimpianti, ansie e paure); la realtà dell’impermanenza e il recupero del tempo presente.
6) Mente stabile e cuore aperto: meditazione di stabilizzazione e sulle qualità interiori (equanimità, amorevole gentilezza, compassione, gioia).
7) Elementi di pratica meditativa: vipassana, shamata, tecniche di visualizzazione e di rilassamento, meditazioni sulle afflizioni mentali e per la vita quotidiana meditazione sulla sofferenza mentale e fisica/lasciar andare/accettazione e rassegnazione.
8) Pratiche di yoga.
9) Riparazione e perdono.

Ognuno ha il potere di cambiare la propria mente: vivendo in uno stato di libertà, ci si lascia condizionare dagli eventi esterni e ci si dimentica che la trasformazione è sempre possibile, in qualsiasi momento. Frequentare luoghi di sofferenza, luoghi di emarginazione, di esclusione è molto utile: è una grande lezione non solo per vedere le prigioni che ognuno si crea, ma anche per imparare come è possibile cambiare, anche in contesti dove il cambiamento evolutivo appare impossibile.




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