Corso di Religione

ETICA E GLOBALIZZAZIONE



         


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Globalizzazione e decrescita.
Non ci possono essere molti dubbi: lo sviluppo sostenibile è una delle ricette più tossiche. (Nicholas Georgescu-Roegen )Una nuova tendenza : non più uno sviluppo sostenibile (che ha fallito) ma una decrescita felice
Alla crescita economica sfrenata, all'iperbolico aumento delle produzioni, al rapido consumo delle risorse del pianeta e alle relative distorsioni del mercato, fa eco una nuova tendenza: la 'decrescita economica'.

Sia essa 'decrescita felice', che 'decrescita sostenibile' insomma, si vuole consumare meno, produrre meno beni industriali, aumentare il fai da te, aumentare i risparmi energetici. In poche parole frenare lo spreco di risorse, il loro cattivo e squilibrato utilizzo e una loro migliore distribuzione sul pianeta. Sono i sostenitori di una nuova ondata di contro-tesi, all'andamento contraddittorio del mondo capitalistico, che si è acuito a causa delle recenti politiche di globalizzazione.

Già nel 1971, Aurelio Peccei e Jay W. Forrester, ci mettevano in guardia sulla crescita esponenziale dell'uso delle risorse nel rapporto "I limiti dello sviluppo". Ebbene dopo i consigli del 'consumo critico', del metodo della 'sostenibilità' entrato a far parte del gergo economico comune e premessa di ogni pianificazione economica, ecco la ricetta della 'decrescita'. Questa nuova idea è sostenuta da diversi autori.




Maurizio Pallante è un esponente della 'decrescita felice' che mira ad aumentare il baratto fra le persone, anche se questo potrebbe far diminuire il PIL, la produzione e i consumi per riportarli alle reali esigenze della popolazione.

Serge Latouche sostiene: "la decrescita è uno slogan provocatorio necessario, anche se non si tratta di far decrescere tutto"... "Qui non si tratta soltanto di decelerare come molti sostengono, ma di cambiare decisamente strada, di prendere un altro treno, di inventarsi davvero una società di decrescita sostenibile, equa, giusta. ...viviamo nella logica diabolica del sistema capitalista, nel quale il denaro serve essenzialmente per fare altro denaro".

La decrescita è innanzitutto uno slogan. Uno slogan per indicare la necessità e l'urgenza di una inversione di tendenza rispetto al modello dominante dello sviluppo e della crescita illimitati. Una inversione di tendenza che si rende necessaria per il semplice motivo che l'attuale modello di sviluppo è ecologicamente insostenibile, ingiusto ed incompatibile con il mantenimento della pace. Esso inoltre porta con sé, anche all'interno dei paesi ricchi, perdita di autonomia, alienazione, aumento delle disuguaglianze e dell'insicurezza.



La decrescita non è una ricetta ma semmai un segno, un cartello stradale che indica un nuovo percorso. Un percorso che ci conduce verso un nuovo immaginario, un nuovo orizzonte. E' l'orizzonte di un'altra economia: pacifica, sostenibile e conviviale, in altre parole felice.La “società della decrescita” presuppone, come primo passo, la drastica diminuzione degli effetti negativi della crescita e, come secondo passo, l’attivazione dei circoli virtuosi legati alla decrescita: ridurre il saccheggio della biosfera non può che condurci ad un miglior modo di vivere.

Questo processo comporta otto obiettivi interdipendenti, le 8 R:

- rivalutare,
- ricontestualizzare,
- ristrutturare,
- rilocalizzare,
- ridistribuire,
- ridurre,
- riutilizzare,
- riciclare.


Tutte insieme possono portare, nel tempo, ad una decrescita serena, conviviale e pacifica. De Marinis: "Il punto di partenza é: non può esserci crescita infinita su un pianeta finito. "

Bruno Clémentin e Vincent Cheynet, autori di "La décroissance soutenable" (La decrescita sostenibile) : " Un'economia sana come minimo non deve intaccare il capitale naturale, che oggi non può più essere considerato inesauribile come nei modelli teorici ottocenteschi. Il nostro patrimonio globale è fatto, ad esempio, di riserve energetiche e di capacità dell'ecosistema di riassorbire i fattori inquinanti: quanto è già stato irrimediabilmente compromesso? Quanto ancora potremo vivere di rendita?"

Giorgio Nebbia: (in :Crescita e decrescita)"Dopo le mode dell''ecologia' e della 'sostenibilità', adesso è arrivata la "decrescita" che rischia di diventare anch'essa una moda, bandiera di una nuova ondata di movimenti ecologisti, un po' come nuova contestazione dell''economia' che ha la crescita come suo dogma, un po' come aspirazione romantica ad una vita semplice e amorevole".

L'approccio individuale alla decrescita dei consumi e della produzione è simile alla frugalità francescana e ad uno dei princìpi morali della tradizione indiana detto Aparigraha: "vivere con il minimo indispensabile", per permettere a tutti di vedere soddisfatti i bisogni fondamentali.

Dal punto di vista oggettivo la 'decrescita' è un monito a razionalizzare le produzioni e i consumi, ma per raggiungere l'obiettivo di una società più giusta, si dovrebbero modificare non solo le abitudini e le regole ma, fondamentale, i presupposti culturali del capitalismo espressi nell'edonismo integrale.

Secondo Ac. Krtashivananda,: "A causa delle sue premesse psicologiche, presenti nei valori dell'edonismo integrale, l'epoca industriale ha fallito gli obiettivi di produzione illimitata, libertà assoluta e felicità senza restrizioni. La cultura edonistica integrale postula che La felicità può essere realizzata dal soddisfacimento dei desideri materiali o sensuali e per soddisfare questi desideri devono essere incoraggiati l'egoismo, l'avidità e l'egocentrismo. Questi fattori, nella credenza edonistica, condurranno all'armonia e alla pace. E' noto a tutti che l'edonismo integrale è la filosofia delle persone ricche e che è stata adottata dai neoliberisti. Non possiamo aspettarci che sotto l'influenza di queste premesse psicologiche le oligarchie economiche cambino il loro sistema. E allora che fare? In termini economici il buon senso ci suggerisce un sistema economico che dia la garanzia delle minime necessità per tutti. E' anche chiaro che la ricchezza materiale non è illimitata."

La 'decrescita' non è una teoria socio-economica che possa sostituire l'attuale sistema, ma una tendenza accettabile sul come affrontare i problemi economici. Sorge spontanea una domanda: allora vi sarebbe da qualche parte in questo mondo, un esempio di applicazione di queste pratiche, privo degli effetti perniciosi del capitalismo edonistico e dello sviluppo illimitato?

Un esempio maturo sembra essere il progetto originario delle Cooperative Mondragon dei Paesi Baschi: 70.000 persone occupate in 160 cooperative. Proprietarie dell'azienda in cui lavorano. Una testa un voto.


Differenze tra i redditi in un rapporto tra 1 e 6, 10% degli utili devoluti a scopi sociali. Reddito pro-capite più alto in Europa fino al 1990. Il capitale come strumento di sviluppo, non obiettivo dell'esistenza. Una finanziaria coop, che realizza i servizi mutualistico e pensionistico, non concessi dal Governo spagnolo. Banche coop., supermercati coop, aziende di robotica, ricambi, agricole, commerciali tutte coop. Un'Università e un Centro di Ricerca di eccellenza.

Le cooperative Mondragon, in uno studio di Betsy Bowman e Bob Stone (1), sono state ritenute più efficienti e performanti delle aziende capitaliste. Sono nate dal pensiero di Arizmendarrieta, un religioso che ha ridisegnato i fondamenti culturali di una economia socializzata: nessun povero, nessun super-ricco, tutti benestanti.

1. Betsy Bowman and Bob Stone - Cooperativization on the Mondragón Model As Alternative to Globalizing Capitalism - ©2005 GEO, Riverdale, MD 20738-0115 http://www.geo.coop 20-11-2006 Tarcisio Bonotto


La decrescita sostenibile Bruno Clémentin e Vincent Cheynet    Traduzione di Angelo Vitiello < www.zmag.org

La contestazione della crescita economica è un fondamento dell'ecologia politica. Non può esserci crescita infinita su di un pianeta finito. Dal momento che disturbava troppo, perché in radicale rottura con il nostro sviluppo attuale, questa critica fu ben presto abbandonata a vantaggio di concetti più flessibili, come lo "sviluppo durevole". Eppure, razionalmente, non esiste quasi altra via, per i paesi ricchi (20% della popolazione planetaria e 80% del consumo delle risorse naturali) che quella di ridurre la loro produzione e il loro consumo al fine di "decrescere".

Non c'è bisogno di essere economisti per capire che un individuo, o una collettività, che tragga la maggior parte delle sue risorse dal suo capitale, e non dai suoi redditi, è destinato al fallimento. Eppure questo è proprio il caso delle società occidentali, che attingono alle risorse naturali del pianeta, un patrimonio comune, senza tenere conto del tempo necessario perché esse si rinnovino. Non contento di depredare questo capitale, il nostro modello economico, fondato sulla crescita, induce inoltre un aumento costante di questi prelievi.

Gli economisti ultra-liberali, come i neo-marxisti, hanno eliminato dai loro ragionamenti il parametro "natura", perché troppo contrariante. Privato del suo dato fondamentale, il nostro modello economico e sociale si trova così scollegato dalla realtà fisica e funziona nel virtuale. Gli economisti vivono, in effetti, nel mondo religioso ottocentesco, in cui la natura era considerata inesauribile.

Negare la realtà a vantaggio di una costruzione intellettuale è caratteristico di un'ideologia. Possiamo quindi considerare che l'economia attuale è prima di tutto di natura ideologica, non fosse altro che per difetto. La realtà è più complessa, poiché il sistema economico è in effetti largamente abbandonato a se stesso, senza controllo politico.


L'obiettivo di un'economia sana
Chiameremo economia sana un modello economico che, come minimo, non intacchi il capitale naturale. L'ideale sarebbe ricostituire il capitale naturale già distrutto. Ma il primo obiettivo di un'umanità che vive sui redditi della natura costituisce già una sfida straordinaria.

Possiamo anche domandarci se quest'obiettivo sia ancora realizzabile, e se il punto di non-ritorno non sia stato già oltrepassato. In ogni caso, quest'obiettivo è il solo al quale l'umanità possa puntare, sia dal punto di vista morale che da quello scientifico.

Morale, perché fa parte del dovere e della responsabilità di ogni individuo e dell'umanità preservare il proprio ambiente e restituirlo ai propri discendenti, come minimo, nello stato in cui l'ha trovato.

Scientifico, perché immaginare che l'umanità abbia i mezzi per colonizzare altri pianeti vuol dire delirare. Le distanze nello spazio sono fuori della portata delle nostre tecnologie. Per fare dei salti da pulce nello spazio, sprechiamo inutilmente quantità gigantesche di risorse preziose.

Inoltre, in via puramente teorica, se potessimo portare sul nostro pianeta, in maniera economicamente conveniente, una risorsa energetica extra-terrestre, questo avrebbe come conseguenza un nuovo degrado ecologico. In effetti, alcuni scienziati pensano che il pericolo sia più nelle "troppe" risorse, che nel rischio di vederle esaurirsi. Il pericolo principale è l'incapacità dell'ecosistema globale di assorbire tutti gli agenti inquinanti che generiamo. L'arrivo di una nuova risorsa energetica riuscirebbe così solo ad amplificare i cambiamenti climatici.

Non attingere per niente al nostro capitale naturale sembra difficile, anche solo per produrre degli oggetti di prima necessità come una pentola o un ago. Ma abbiamo già prelevato e trasformato una quantità considerevole di minerali. La massa d'oggetti prodotti costituisce già un formidabile potenziale di materia da riciclare.

L'obiettivo dell'economia sana può sembrarci un orizzonte utopistico. In pratica abbiamo al massimo 50 anni per arrivarci, se vogliamo salvaguardare l'ecosistema. La biosfera non concede dilazioni. Restano, al ritmo di consumo attuale, 41 anni di riserve certe di petrolio 1, 70 anni di gas 2, 55 anni di uranio 3.

Anche se queste cifre possono essere contestate, ci dirigiamo verso la fine della maggior parte delle risorse planetarie a breve scadenza, se non cambiamo radicalmente rotta. Contrariamente al ventesimo secolo, ormai consumiamo più risorse di quante non ne scopriamo. Inoltre è previsto, da qui a 20 anni, un raddoppio del parco automobilistico mondiale e del consumo energetico mondiale. Infine, più ci avviciniamo alla fine delle risorse, più queste sono difficili da estrarre. Resta il fatto che il pericolo maggiore, oggi, sembrano essere i danni che facciamo al clima, che non l'esaurimento delle risorse naturali.

Il teorico della decrescita
L'economista romeno Nicholas Georgescu-Roegen è il padre della decrescita 4. Nicholas Georgescu-Roegen distingue l'"alta entropia", energia non disponibile per l'umanità, dalla "bassa entropia", energia disponibile. Egli dimostra semplicemente che ogni volta che noi intacchiamo il nostro capitale naturale, come le riserve energetiche, ipotechiamo le speranze di sopravvivenza dei nostri discendenti.

Ogni volta che produciamo un'automobile, lo facciamo al prezzo di una riduzione del numero di vite future. Egli mette in evidenza il vicolo cieco costituito dalla "crescita zero" o dallo "stato di stabilità" decantato dagli ecologisti. In effetti, anche se stabilizzassimo la nostra economia, continueremmo ad attingere al nostro capitale.


La decrescita sostenibile
Tutto il problema consiste nel passare da un modello economico e sociale fondato sull'espansione permanente ad una civiltà "sobria" il cui modello economico abbia integrato la finitezza del pianeta. Per passare dalla nostra civiltà all'economia sana, i paesi ricchi dovrebbero impegnarsi in una drastica riduzione della loro produzione e dei loro consumi. In termini economici, questo significa entrare nella decrescita. Il problema è che le nostre civiltà moderne, per non generare conflitti sociali, hanno bisogno di questa crescita perpetua.

Il fondatore della rivista The ecologist , l'ecologista milionario e conservatore Edwards Goldsmith, avanza l'ipotesi che riducendo del 4% l'anno per 30 anni la produzione e il consumo, avremmo una possibilità di scampare alla crisi climatica, "con un minimo di volontà politica" 5. Facile a dire sulla carta, fosse anche riciclata o semplicemente sbiancata senza cloro! La realtà sociologica è tutt'altro. Perfino i ricchi dei paesi ricchi aspirano a consumare sempre più. E non è "un minimo di volontà politica" che sarebbe necessario se un gruppo volesse condurre questa politica dall'alto, ma piuttosto un potere totalitario.

Quest'ultimo avrebbe un gran da fare per contrastare una sete infinita di consumi alimentata da anni di condizionamento all'ideologia pubblicitaria. A meno di rientrare in un'economia di guerra, l'appello alla responsabilità degli individui è la priorità. I meccanismi economici condotti dal politico dovranno svolgere un ruolo fondamentale, ma resteranno secondari. La svolta dovrà quindi attuarsi "dal basso", per restare nella sfera democratica.

Edwards Goldsmith afferma anche che solo una crisi economica mondiale potrebbe ritardare la crisi ecologica globale se non si intraprende niente. La storia ci dimostra che le crisi hanno raramente delle virtù pedagogiche, e che esse generano molto spesso dei conflitti sanguinosi. In situazione di pericolo, l'umano privilegia i suoi istinti di sopravvivenza, a scapito della società.

La crisi del 1929 ha portato al potere Hitler, i nazisti, i fascisti, i franchisti in Europa e gli ultranazionalisti in Giappone. Le crisi invocano dei poteri forti, con tutte le derive che questi generano. Tutto l'obiettivo consiste, invece, nell'evitare che sia il caos a regolare le cose.

E' per questa ragione che questa decrescita dovrà essere "sostenibile". Vuol dire che non dovrà generare una crisi sociale che rimetta in discussione la democrazia e l'umanesimo. Non servirebbe a niente, voler preservare l'ecosistema globale, se il prezzo per l'umanità è un crollo umano. Ma più aspetteremo, ad impegnarci nella "decrescita sostenibile", più l'impatto contro la fine delle risorse sarà rude, e più il rischio di generare un regime eco-totalitario o di sprofondare nella barbarie sarà elevato.

Un esempio di decrescita caotica è la Russia. Questo paese ha ridotto del 35% le sue emissioni di gas a effetto serra dalla caduta del muro di Berlino 6. La Russia si è disindustrializzata. E' passata da un'economia da superpotenza ad un'economia in larga parte di sopravvivenza.

In termini puramente ecologici, è un exploit. In termini sociali, è ben lungi dall'esserlo. I paesi ricchi dovranno tentare di diminuire la loro produzione e i loro consumi senza far implodere il loro sistema sociale. Al contrario, dovranno proprio rinforzarlo in questa difficile transizione per tendere ad una maggiore equità. Una cosa sembra sicura: per raggiungere l'"economia sana", la decrescita dei paesi ricchi dovrà essere durevole.


Un esempio: l'energia
Più di tre quarti delle risorse energetiche che utilizziamo oggi sono di origini fossili. Sono il gas, il petrolio, l'uranio, il carbone. Sono risorse non-rinnovabili, o più esattamente con un tasso di rinnovamento estremamente debole. In ogni caso, senza alcun rapporto con il nostro attuale utilizzo. L'economia sana ci impone di cessare questo saccheggio.

Dobbiamo riservare queste risorse preziose per degli impieghi vitali. Inoltre, la combustione di queste risorse fossili disgrega l'atmosfera (effetto serra e altri inquinamenti) e intacca da quest'altro lato il nostro capitale naturale.

Quanto al nucleare, oltre al pericolo che fanno correre le sue installazioni, produce rifiuti che hanno una vita dalla durata infinita, se paragonata alla scala umana (plutonio 239, tempo di dimezzamento 24.400 anni, iodio 129, durata dell'emivita 16 milioni di anni). Il principio di responsabilità, che definisce l'età adulta, vuole che non sviluppiamo una tecnica che non riusciamo a controllare. Non dobbiamo lasciare in eredità ai nostri discendenti un pianeta avvelenato fino alla fine dei tempi.

Al contrario, avremo diritto alle energie "di rendita", cioè quella solare, l'eolica e, in parte, la biomassa (legno) e un po' d'idraulica. Con queste ultime due risorse che devono dividersi con altri utilizzi che non la sola produzione di energia.

Quest'obiettivo è raggiungibile solo con una drastica riduzione del nostro consumo energetico. In un'economia sana, l'energia fossile sparirebbe. Questa sarebbe riservata a degli usi di sopravvivenza, come gli usi medici. Il trasporto aereo, i veicoli con il motore a scoppio sarebbero condannati a sparire. Sarebbero sostituiti dalla marina a vela, la bicicletta, il treno, la trazione animale (quando la produzione di alimenti per gli animali è sostenibile).

E' chiaro che tutta la nostra civiltà sarebbe sconvolta da questo mutamento nel rapporto con l'energia. Significherebbe la fine dei grandi centri commerciali a vantaggio dei piccoli negozi di quartiere e dei mercatini, dei prodotti manufatti poco cari importati a beneficio dei prodotti locali, degli imballaggi usa e getta a vantaggio dei contenitori riutilizzabili, dell'agricoltura intensiva motorizzata a beneficio di una agricoltura contadina estensiva.

Il frigorifero sarebbe rimpiazzato da una camera fredda, il viaggio alle Antille da una gita in bicicletta nelle Cevenne, l'aspirapolvere dalla scopa e lo straccio, l'alimentazione a base di carne da una dieta quasi vegetariana, ecc.

Almeno durante il periodo di riorganizzazione della nostra società, la perdita dell'energia fossile porterà un accrescimento considerevole della massa di lavoro per i paesi occidentali, e questo anche considerando una forte diminuzione dei consumi. Non solo non disporremmo più dell'energia fossile, ma in più la manodopera a buon mercato dei paesi del terzo mondo non sarebbe più disponibile. Faremmo allora ricorso alla nostra energia muscolare.


Un modello economico alternativo
Al livello dello Stato, un'economia sana gestita democraticamente può essere solo il frutto di una ricerca di equilibrio costante tra le scelte collettive e individuali. Essa ha bisogno di un controllo democratico dell'economia da parte del politico e delle scelte di consumo degli individui. Un'economia di mercato controllata dal politico e dal consumatore. Dove l'uno non può fare a meno dell'altro. Questo modello esige una maggiore responsabilizzazione del politico come del consumatore.

In maniera succinta, possiamo immaginare un modello economico che si articoli su tre livelli:

  • Il primo sarebbe un'economia di mercato controllata che eviti qualunque fenomeno di concentrazione. Sarebbe, per esempio, la fine del sistema del franchising. Ogni artigiano o commerciante sarebbe proprietario del suo utensile di lavoro e non potrebbe possedere più di questo. Sarebbe necessariamente il solo a decidere della sua attività, in relazione con la sua clientela. Quest'economia di piccole entità, oltre al suo carattere umanista, avrebbe l'immenso merito di non generare pubblicità, condizione sine qua non per la messa in opera della decrescita sostenibile. L'uscita dall'ideologia del consumismo condiziona la sua messa in opera tecnica.

  • Il secondo livello, la produzione di attrezzature che hanno bisogno di investimenti, avrebbe dei capitali misti, privati e pubblici, controllati dal politico.

  • Infine, il terzo livello. Sarebbe quello dei servizi pubblici di base, non-privatizzabili (accesso all'acqua, all'energia disponibile, all'istruzione e alla cultura, ai trasporti in comune, alla sanità, alla sicurezza delle persone).

La messa in pratica di un modello simile porterebbe al commercio equo per tutti: applicando là dove si produce i criteri umani di dove si vende. Questa regola di semplice enunciazione porterebbe alla fine della schiavitù e del neo-colonialismo.

Una sfida per i "ricchi"
Quando saranno enunciate le misure da prendere per entrare nella decrescita sostenibile, la maggior parte dei nostri concittadini resterà incredula. La realtà è troppo dura per essere ammessa di colpo, per la maggioranza dell'opinione pubblica. Nella maggior parte dei casi essa suscita una reazione di animosità. E' difficile rimettersi in discussione quando si è stati allattati al biberon mediatico pubblicitario della società dei consumi.

Un cocktail che somiglia stranamente alla Soma, droga euforizzante descritta da Aldous Huxley ne Il migliore dei mondi (Brave New World, 1932, che annunciava un potere psicobiologico!).

Anche il mondo intellettuale, troppo impegnato a risolvere delle questioni bizantine e ancora abbagliato dalla scienza, avrà molte difficoltà ad ammettere di essere passato così lontano da un'impresa di civiltà così importante. E' difficile, per gli Occidentali, prendere in considerazione un altro modo di vita. Ma non dobbiamo dimenticare che il problema non si pone in questi termini per la stragrande maggioranza degli abitanti del globo. 80% degli umani vivono senza automobile, senza frigorifero o ancora senza telefono. 94% degli umani non hanno mai preso l'aereo.

Dobbiamo perciò uscire dal nostro quadro di abitanti dei paesi ricchi per ragionare su scala planetaria e considerare l'umanità come una e indivisibile. In mancanza di ciò, saremmo ridotti a ragionare come Maria Antonietta alla vigilia della Rivoluzione francese, incapace di immaginare di potersi spostare senza sedia con il portantino, e che consigliava di mangiare brioche a quelli che non avevano pane.

A dieta
Circa un terzo della popolazione americana è obeso. Gli Americani si sono lanciati alla ricerca del gene dell'obesità per risolvere questo problema in maniera scientifica. Naturalmente la soluzione giusta è adottare una dieta più adeguata.

Questo comportamento è del tutto sintomatico della nostra civiltà. Pur di non rimettere in discussione il nostro modo di vita, continuiamo nella nostra fuga in avanti alla ricerca di soluzioni tecniche, per rispondere ad un problema culturale. Inoltre, questa folle fuga in avanti non fa che accelerare il movimento distruttivo.

In effetti, anche se la decrescita ci sembra impossibile, la barriera si trova più nelle nostre teste che nelle reali difficoltà a metterla in pratica. E' necessario far uscire l'opinione pubblica dal condizionamento ideologico fondato sulla fede nella scienza, le novità, il progresso, i consumi, la crescita, cioè da tutto ciò che condiziona quest'evoluzione.

La priorità è quindi di impegnarsi su scala individuale nella semplicità volontaria. E' cambiando noi stessi che trasformeremo il mondo.


Definizione di un concetto
Se torniamo alla definizione del concetto " sviluppo durevole ", cioè: "ciò che permette di rispondere ai bisogni delle generazioni attuali, senza con ciò compromettere la capacità delle generazioni future di rispondere ai loro propri bisogni", allora il termine appropriato per i paesi ricchi è proprio la "decrescita sostenibile".

Note

1 Statistical Review of World Energy
2 Gaz de France
3 Commissione delle comunità europee
4 La décroissance, Nicholas Georgescu-Roegen, ediz. Sang de la Terre
5 L'écologiste, n.2, inverno 2000, editoriale di Edwards Goldsmith
6 Dato: Ministero tedesco dell'Ambiente


La decrescita economica e produttiva

Maurizio Pallante - www.decrescita.it    vedi anche qui.

Sostenere la necessità di una decrescita economica e produttiva, descriverne i vantaggi in termini di felicità individuale, di sollievo per gli ecosistemi terrestri, di relazioni più eque e serene tra gli individui e tra i popoli, è un passaggio obbligato nella costruzione di una nuova cultura capace di superare i terribili problemi che il sistema economico industriale, fondato sulla crescita illimitata della produzione di merci, pone all'umanità e a tutte le specie viventi.

Ma è come voler parlare a voce in un ambiente dove un potente sistema di amplificazione sostiene contemporaneamente il concetto opposto. Non si viene ascoltati non solo perché si sostengono posizioni così contro corrente da essere respinte a priori dai più, ma anche perché non si riesce nemmeno a far udire la propria voce. È come voler fermare un treno in corsa contrapponendogli solo la propria forza muscolare.

Ciò nonostante occorre ribadire in tutte le sedi i rapporti di causa-effetto tra la crescita del p.i.l. e l'esaurimento di risorse vitali, l'incremento esponenziale delle varie forme di inquinamento, la progressiva devastazione degli ambienti naturali e storicamente antropizzati, la disoccupazione, le guerre, il degrado sociale.

Ma l'analisi e la denuncia non bastano. Occorre contestualmente effettuare nella propria vita scelte che comportano decrementi, anche infinitesimali, del p.i.l. Innanzitutto perché se si è convinti che la decrescita sia un elemento indispensabile per una vita più felice sarebbe sciocco non cominciare a praticarla subito nella propria. In secondo luogo perché se le riflessioni sulla necessità della decrescita si sviluppano da una pratica concreta e sperimentata non sono soltanto speculazioni teoriche e diventano più credibili.

Infine perché i vantaggi derivanti dalla loro pratica non si limitano all'ambito individuale, alla costruzione di una nicchia in cui rifugiarsi da un mondo che va in direzione opposta e difendersi dalle sofferenze che genera, ma acquistano il valore di una proposta politica. Nella ossessiva ripetitività e passività dei comportamenti consumisti massificati acquistano visibilità e luminosità, manifestano i loro vantaggi e, di conseguenza, possono suscitare ripensamenti: "Se lo stanno facendo alcuni, per quale motivo non posso farlo anche io?"

Come si può praticare la decrescita nelle proprie scelte di vita?
Innanzitutto chiarendo a se stessi cosa è e come si realizza la crescita del p.i.l. A differenza di quanto comunemente si crede, la crescita del p.i.l. non misura la crescita dei beni prodotti da un sistema economico, ma la crescita delle merci scambiate con denaro.

Non sempre le merci sono beni, perché nel concetto di bene è insita una connotazione qualitativa - qualcosa che offre vantaggi - che invece non pertiene al concetto di merce. Se si fanno le code in automobile aumenta il consumo della merce carburante, quindi si accresce il p.i.l., ma si ha uno svantaggio, una disutilità.

Viceversa, non necessariamente i beni sono merci, perché si può produrre qualcosa senza scambiarla con denaro, ma per utilizzarla in proprio o per donarla. I prodotti del proprio orto e del proprio frutteto autoconsumati non sono merci e, pertanto, non fanno crescere il p.i.l., ma sono qualitativamente superiori agli ortaggi e alla frutta prodotta industrialmente e comprata al supermercato.

La cura dei propri figli o l'assistenza dei propri vecchi fatta con amore è qualitativamente molto superiore alla cura che può prestare una persona pagata per farlo. Ma questa attività prestata in cambio di denaro fa crescere il p.i.l., l'altra, donata per amore, no.

La sobrietà
Fare scelte esistenziali nell'ottica della decrescita significa quindi ridurre la quantità delle merci nella propria vita. A tal fine si possono percorrere due strade:
1. ridurre l'uso di merci che comportano utilità decrescenti e disutilità crescenti, che generano un forte impatto ambientale, che causano ingiustizie sociali;
2. sostituire nella maggiore quantità possibile le merci con beni.
La prima è la strada della sobrietà. La seconda è la strada dell'autoproduzione e degli scambi non mercantili, basati sul dono e la reciprocità. La sobrietà non è soltanto una virtù di cui il sistema economico e produttivo basato sulla crescita del p.i.l. ha voluto cancellare accuratamente ogni traccia perché non se ne serbasse nemmeno la memoria nel giro di una generazione, ma è, soprattutto una manifestazione di intelligenza e di autonomia di pensiero.

Chi vive in un appartamento dove in inverno la temperatura è di 22 gradi, indossando una maglietta a maniche corte e quando ha troppo caldo apre le finestre, è convinto di vivere meglio di una persona che vive a 18 gradi, con un maglione, e se ha troppo caldo abbassa il riscaldamento. In realtà è un consumista stupido, che vive in un modo fisiologicamente innaturale, è più soggetto ad ammalarsi, contribuisce ad accrescere in misura maggiore le emissioni di CO2 e, per ottenere questi svantaggi, paga di più. Ma fa crescere di più il p.i.l.

Chi lavora cinque mesi all'anno per acquistare e mantenere un'automobile che gli serve ad incolonnarsi ogni giorno lavorativo due volte al giorno per ore sulle tangenziali nel tragitto casa-lavoro, e ogni giorno festivo due volte al giorno per un numero maggiore di ore sulle autostrade nel tragitto casa-località di villeggiatura, è un consumista stupido, che si costringe a vivere una vita insopportabile e ben più infelice di una persona che lavora di meno e guadagna di meno, ma proprio per questo non ha bisogno di soldi da spendere in automobili, benzina, autostrade, compensazioni illusorie nelle località di vacanza dello stress accumulato nella settimana lavorativa. Ma fa decrescere il p.i.l.

Chi segue le mode imposte dalla pubblicità, nell'abbigliamento, nell'alimentazione, nel tempo libero, nelle vacanze, consuma molto di più di chi non le segue e, quindi fa crescere il p.i.l. acquistando illusioni scambiate per realtà. Vive in uno stato di ottusità mentale, di cui i pubblicitari sono ben consci: basta ascoltare i loro messaggi per capire che escludono a priori le poche persone dotate di autonomia di pensiero. Tanto questa minoranza non comprerebbe comunque le merci alla moda pubblicizzate.

La sobrietà nell'acquisto di merci, in funzione di bisogni reali e non indotti, privilegiando quelle prodotte col minor impatto ambientale, che provengono da meno lontano e quindi hanno fatto consumare meno fonti fossili nel trasporto dal produttore al consumatore, che generano pochi o punti rifiuti, che non costano poco perché hanno sfruttato ignobilmente la miseria dei lavoratori, che sono fatte per durare o per essere riciclate, è quindi al contempo una manifestazione d'intelligenza e una virtù. Comporta una decrescita del consumo di merci e del p.i.l. da cui deriva un miglioramento della qualità della vita e degli ambienti.

La sobrietà comporta una riduzione della crescita del p.i.l. attraverso una riduzione del consumo di merci, ma non consente una emancipazione dalla dipendenza assoluta nei loro confronti. E la sempre maggiore dipendenza dalle merci è la conseguenza di una sempre maggiore incapacità di autoprodurre beni.

Per aver bisogno di comprare tutto ciò che serve a soddisfare i propri bisogni vitali bisogna essere incapaci di tutto. Solo chi non sa fare niente di ciò che gli serve può diventare un consumista senza alternative. La condizione di non saper produrre nessun bene, o quasi, nei paesi industrializzati è ormai generalizzata. Oggettivamente costituisce un enorme depauperamento culturale, che invece è stato proposto e vissuto come un progresso e come un'emancipazione dell'uomo dai limiti della natura.

Se la crescita del p.i.l. è stata considerata sinonimo di benessere e la crescita quantitativa delle merci un bene in sé, la possibilità di acquistarne la maggiore quantità possibile e, quindi, la sostituzione dei beni autoprodotti con merci prodotte industrialmente, è stata identificata con un miglioramento della qualità della vita. Nell'arco di una generazione alcuni beni di uso comune, come lo yogurt, il pane, la passata di pomodoro, le marmellate, le verdure sottolio e sottaceto, non si sono più fatti in casa e sono stati sostituiti da prodotti comprati al supermercato.

L'autoproduzione di frutta e verdura è stata sostituita con prodotti agroalimentari carichi di veleni e senza sapore. Un processo disastroso in cui si sommano perdita di qualità e perdita di conoscenze, ma che è stato considerato un progresso perché ha comportato una crescita quantitativa della produzione di merci e del p.i.l.

La rivalutazione dell'autoproduzione di beni e servizi non solo consente di ridurre il consumo di merci e, di conseguenza, il p.i.l., ma anche di riscoprire un sapere e un saper fare dimenticati, considerati arretrati e poco scientifici perché non finalizzati ad accrescere le quantità. Ha quindi una grande valenza culturale, che non si limita a questo recupero di conoscenze, ma, cosa ancora più importante, libera dalla dipendenza assoluta dalle merci. Emancipa dalla subordinazione alle leggi del mercato. Aumenta il prezzo della frutta? E chi se se importa, se me la produco io.

Maggiore è la quantità di beni che si sanno autoprodurre, meno merci occorre comprare, meno denaro occorre per vivere. Non si è costretti a incolonnarsi tutti giorni feriali due volte al giorno sulle tangenziali per andare a guadagnare un salario con cui comprare tutto ciò che non si sa autoprodurre. Non si ha bisogno di incolonnarsi tutti i giorni festivi sulle autostrade nell'illusorio tentativo di recuperare con altro stress lo stress accumulato nella settimana lavorativa.

La sostituzione delle merci con beni, dell'acquisto con l'autoproduzione, comporta dunque una decrescita del p.i.l. ma non ristrettezze di approvvigionamento, sacrifici e rinunce. Ne deriva anzi un sensibile miglioramento della qualità della vita individuale e delle condizioni ambientali. La frutta e la verdura autoprodotte non sono nemmeno paragonabili qualitativamente a quelle prodotte industrialmente.

Inoltre, nel loro statuto ontologico non esiste il carattere della crescita, perché non ha nessun senso produrne più di quanta se ne consuma e se ne dona. Se se ne producesse più del fabbisogno si farebbe soltanto una fatica inutile. E se nel loro statuto ontologico non esiste il carattere della crescita non esiste nemmeno la necessità delle protesi chimiche per sostenerla (fitofarmaci, antiparassitari, diserbanti, concimi di sintesi).

Non c'è quindi inquinamento dei suoli, né l'inquinamento dell'aria causato dai consumi di energia necessari a produrre e trasportare le protesi chimiche. Non c'è nemmeno l'inquinamento dell'aria causato dal trasporto dei merci dai produttori ai consumatori. Non ci sono imballaggi né rifiuti da raccogliere e smaltire. E ognuno di questi vantaggi è un fattore di decrescita del p.i.l.

Nessuno potrebbe illudersi di autoprodurre tutto ciò che gli serve per vivere. L'autoproduzione di beni e servizi può essere tuttavia potenziata da scambi non mercantili fondati sul dono e sulla reciprocità, che oltre a essere fattori di decrescita economica contribuiscono anche a rafforzare i legami sociali.

Il dono e la reciprocità, che hanno sostanziato la vita economica delle società pre-industriali e nei paesi industrializzati hanno apportato i loro benefici fino agli anni cinquanta del secolo scorso, non devono essere confusi con i regali acquistati e donati in un numero di circostanze fittizie crescenti, create appositamente per potenziare il consumismo, né possono essere semplicemente ridotti al baratto (scambio di prodotti senza l'intermediazione del denaro), ma consistono essenzialmente in uno scambio gratuito di tempo, di professionalità, di conoscenze, di disponibilità umana.

In tutte le società di tutti i luoghi del mondo in cui si sono realizzate prima dell'industrializzazione e dell'estensione della mercificazione a tutte le sfere della vita umana, queste forme di scambio non mediato dal denaro hanno seguito tre regole, non scritte, ma generalizzate: l'obbligo di donare, l'obbligo di ricevere, l'obbligo di restituire più di quello che si è ricevuto. In questo modo si creano legami sociali, mentre gli scambi mercantili li distruggono.

La parola "comunità", formata dall'unione delle parole latine cum, che significa "con", e munus, che significa "dono", indica un'associazione fondata su scambi non mercantili, sul dono e la reciprocità, su legami sociali più forti di quelli esclusivamente mercantili che legano i membri di una società. Maggiore è l'incidenza degli scambi fondati sul dono e la reciprocità, minori sono gli scambi mercantili.

Per allargare sempre di più la sfera degli scambi mercantili, la sfera delle merci, e quindi la crescita del p.i.l., la società industriale ha distrutto progressivamente gli scambi non mercantili, anche all'interno dei nuclei comunitari più forti, quelli fondati sui vincoli del sangue. Le famiglie sono state vieppiù ridotte al nucleo ristretto di genitori e figli e anche nei legami tra genitori e figli i servizi alla persona fondati sul dono e la reciprocità sono stati progressivamente sostituiti da prestazioni a pagamento: in particolare la cura dei piccoli e degli anziani.

Rivalutare i legami comunitari nelle famiglie, rompere i limiti mononucleari in cui la famiglia è stata ristretta, riscoprire l'importanza dei rapporti di vicinato, costruire gruppi di acquisto solidali e banche del tempo (sebbene quanta cultura mercantile indotta è insita nella denominazione di "banca" data ad una forma di legame sociale che si propone di rompere i limiti della mercificazione nella fornitura di servizi alla persona!), restituire ai nonni il loro ruolo educativo e di trasmissione del sapere nei confronti dei nipoti: tutto ciò comporta una decrescita del p.i.l. attraverso una riduzione della mercificazione nei rapporti interpersonali e al contempo forti miglioramenti della qualità della vita.

La sobrietà, l'autoproduzione e gli scambi non mercantili non possono comunque abolire la dimensione mercantile, né sarebbe auspicabile che ciò avvenisse, perché alcuni beni e servizi possono solo essere acquistati e la loro privazione peggiorerebbe le condizioni di vita. Ma possono contribuire a ridurla in maniera determinante, riportandola alle sue dimensioni fisiologiche. Ma quanto e cosa si può, o conviene, autoprodurre?
Dipende da dove si vive, dal tipo di lavoro salariato che si fa, dalla fascia d'età, dalle caratteristiche della propria famiglia, dalla sofferenza (culturale, psicologica, esistenziale) che si prova a rimanere rinchiusi nella sola dimensione mercantile. Ognuno troverà la dimensione ottimale per sé, iniziando da poco e da ciò che gli sembra più facile o più vantaggioso, per estendere progressivamente, se lo riterrà opportuno, la sfera dell'autoproduzione e degli scambi non mercantili.

Ma come si possono recuperare forme di sapere e saper fare che sono state cancellate dalla memoria collettiva?


In realtà, come tutti i tentativi di uniformazione, anche questo non è riuscito del tutto. Qua e là sono rimaste nicchie di resistenza, che negli ultimi tempi hanno acquistato nuovi adepti. Come nei monasteri del primo e del secondo millennio sono stati conservati patrimoni di conoscenze che altrimenti sarebbero andate perdute, il sapere e il saper fare che liberano dalla dipendenza assoluta dalle merci sono stati conservati in pochi luoghi da poche persone, che le hanno anche implementati con una maggiore consapevolezza scientifica.

Un movimento che si proponga l'obbiettivo di riconquistare equilibri sconvolti dal meccanismo della crescita economica e che persegua la decrescita come pre-requisito di questa riconquista, non può che proporsi di mettere in rete questi luoghi dove l'autoproduzione dei beni ha ancora un ruolo centrale.

Rimettere in circolo questo sapere e questo saper fare, può costituire un'alternativa alla mercificazione totale che caratterizza la società della crescita. Il primo passo in questa direzione è una mappatura di questi luoghi, mettendo in evidenza le forme di autoproduzione che vi sono praticate per soddisfare una parte del fabbisogno di chi li abita.

La reciproca conoscenza può attivare scambi di conoscenze che consentono di ampliare la gamma di beni autoprodotti in ogni realtà, con benefici effetti, quantitativi e qualitativi, sul processo della decrescita. La mappatura di questi luoghi consentirà anche a chi vuole cominciare a introdurre nella sua vita elementi di autoproduzione per sottrarsi al meccanismo totalizzante del mercato, di sapere dove andare per imparare a fare i primi passi in questa direzione o a implementare le proprie conoscenze per arricchire la gamma dei beni con cui sostituire in misura sempre maggiore le merci che acquista. I luoghi in cui si praticano forme di autoproduzione sono numerosi.

La varietà dei beni che si autoproducono più ampia di quanto s'immagini. Il bisogno di liberarsi dalla mercificazione assoluta spesso rimane mortificato dal non sapere come fare. Può mettersi in moto un processo moltiplicatore con effetti significativi sulla decrescita del p.i.l. e, forse, anche sulla felicità individuale di molte persone. Non è forse questo il significato più profondo della politica?

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